Cronache
Impagnatiello e Turetta, quando l'ergastolo divide
Pena esemplare o rieducazione? Le recenti condanne per i due assassini hanno riaperto il dibattito
Filippo Turetta, Alessandro Impagnatiello, assassini finiti al centro delle cronache per i loro delitti efferati su giovani donne puniti con la condanna all'ergastolo. Sentenze dure, le più dure possibili da molti contestate ma che sono importanti anche per i riflessi ed i significati che hanno sulla nostra società.
La pena dell’ergastolo ha un forte impatto pubblico perché risponde al bisogno delle persone di “punire il colpevole in maniera esemplare”. Tale bisogno è assimilabile alla tendenza di descrivere chi commette crimini efferati come “mostro” o “malato di mente”. La definizione di mostro implica l’attivazione di un meccanismo di disimpegno morale che va a stigmatizzare solo l’autore del crimine, mentre la definizione di malato compromette invece un’intera categoria sociale. L’effetto è quello di andare ad etichettare la categoria dei malati psichiatrici come pericolosi quando, in realtà, le persone affette da psicopatologia raramente sono lesive per gli altri, quanto più per sé stesse.
Bisognerebbe iniziare a ragionare anche in termini di cattiveria umana, cominciando ad esempio ad ammetterne l'esistenza, perché la psicologizzazione della criminalità, senza adeguati strumenti di comprensione delle dinamiche individuali e di ecologia di sistema, va solo ad alimentare la creazione di stereotipi e pregiudizi.
La necessità di deumanizzare chi commette delitti crudeli nasce anche dall’attivazione di specifici bias cognitivi: il self-serving bias e l’errore fondamentale di attribuzione. Queste scorciatoie mentali ci consentono di percepirci immuni dai comportamenti antisociali fornendoci l’illusione che noi non saremmo mai in grado di compierli. Il primo ci porta a distorcere la realtà per proteggere il nostro ego, mentre il secondo ci porta a credere che tutti quelli che compiono azioni atroci abbiano necessariamente una condizione patologica.
Psicologizzare la criminalità è un problema che coinvolge tutta la società: è più facile attribuire disposizioni interne o malattie mentali a coloro che compiono delitti piuttosto che pensare che siano stati spinti da cause situazionali. Questo perché accettare che alcuni individui abbiano agito in maniera cruenta perché "cattivi" e non malati vorrebbe dire prendere consapevolezza della possibilità che a chiunque di noi potrebbe accadere la stessa cosa. Si consideri che basta un aspetto apparentemente trascurabile di una situazione sociale per indurci a commettere atti riprovevoli. Gli individui tendono a percepire sé stessi come moralmente superiori rispetto agli altri e meno suscettibili a comportamenti indesiderati. Questo può causare problemi nella comprensione che chiunque, date determinate circostanze, potrebbe comportarsi in maniera simile.
Siamo tutti soggetti all’errore fondamentale di attribuzione. Questo errore riflette la tendenza ad attribuire le cause del proprio comportamento a fattori situazionali e le cause del comportamento altrui a fattori disposizionali. Questo sovrautilizzo di analisi disposizionali dei comportamenti antisociali è tipico soprattutto delle culture che si basano su valori individualistici, come la nostra, e include sempre strategie di modificazione del comportamento. L’utilizzo di questo bias può portare a diverse conseguenze: sociali, interpersonali, sugli atteggiamenti culturali e nelle dinamiche di gruppo oltre che a fungere da deresponsabilizzatore.
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Un ruolo importante viene ricoperto anche dall’utilizzo dei moral disengagement. La riformulazione del comportamento si ottiene attraverso giustificazioni morali, etichette eufemistiche e confronti vantaggiosi che consentono all'individuo di vedere il proprio comportamento immorale come morale o addirittura benigno. In questo processo di giustificazione morale, la condotta dannosa viene resa accettabile sia a livello personale che a livello sociale se vista come al servizio di scopi socialmente degni o etici. In questo modo gli individui preservano la visione di sé stessi come individui morali nonostante infliggano danni agli altri.