Cronache

Ius soli e legge Fiano, Ricolfi ad Affari: "Perché l'antifascismo tira ancora"

Simone Cosimelli

L' intervista di Affari Italiani al professor Luca Ricolfi

Sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino, copresidente della Fondazione David Hume (qui): il nome di Luca Ricolfi è noto, il suo lavoro pure. Il 7 ottobre scorso sul Messaggero, quotidiano per il quale è editorialista, ha ricollegato il tema dell’antifascismo a due questioni che, negli ultimi mesi, hanno animato il dibattito pubblico italiano: lo Ius soli “temperato” e lo Ius “culturae” (impropriamente chiamati, insieme, Ius soli) e la legge Fiano (la legge contro l’apologia del fascismo). Questioni di cui Ricolfi torna a parlare con Affari italiani.

 

Professore, ha scritto che il Pd e la sinistra italiana stanno cercando di far passare la battaglia per lo Ius Soli come una battaglia antifascista. Ci spiega?

«Il sillogismo è molto semplice, oltreché sbagliato: dato che le formazioni di estrema destra, ad esempio Casa Pound, sono contro gli immigrati, e dato che spesso hanno qualche nostalgia per il duce, allora niente di più semplice che far passare come lotta antifascista qualsiasi politica a favore dell’immigrazione, regolare e non. Può sembrare incredibile, dopo 70 anni e dopo i libri di Giampaolo Pansa, che l’antifascismo tiri ancora, ma la realtà è quella: alla chiamata antifascista il popolo di sinistra non sa resistere, per quanto surreale tale chiamata possa risultare in determinate circostanze».

Qualche esempio in particolare?

«Sto pensando al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, lapidato perché ha rifiutato di cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini, che gli era stata concessa da quella città quasi un secolo fa».

Antifascismo e anticomunismo, oggi, sono armi ideologiche utilizzate da alcune forze politiche per legittimarsi?

«Forse la situazione non è così simmetrica come sembra. L’antifascismo è ancora un’arma della sinistra, l’anticomunismo mi sembra un po’ in disuso, invece. Verosimilmente, la differenza è legata al grado di manipolabilità dei due elettorati: l’elettorato progressista crede ancora al pericolo fascista, quello di destra ha capito perfettamente che i comunisti non solo non mangiano i bambini, ma sono scomparsi dalla faccia dell’Italia (anche se prosperano altrove: vedi Cina, Corea del Nord, Cuba, Venezuela)».

Per punire la propaganda fascista, già sanzionata dalla legge Scelba (1952) e la legge Mancino (1993), secondo lei la legge Fiano rischierebbe di colpire anche la libera manifestazione delle idee? 

«Non è chiaro, perché dipenderà da come i giudici interpreteranno la legge Fiano. La formulazione originaria, che era aberrante ma chiara, è stata sostituita da una formulazione più ambigua, che tenta di salvare la libertà di opinione ma non ci riesce fino in fondo. E’ stato lo stesso on. Fiano a farmi notare il cambiamento, dopo il mio articolo sul “Messaggero” in cui in effetti (e colpevolmente) commentavo la prima formulazione della legge, non quella finale. Tutto sta in due paroline, “immagini” e “solo”, che erano presenti nella prima formulazione e poi sono sparite».

Cosa prevedeva la prima formulazione?

«Diceva che era perseguibile chiunque propagandasse ‘le immagini’ o i contenuti del partito fascista o del partito nazionalista tedesco, anche ‘solo’ attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni” ad esso collegati (di qui il famoso esempio dell’accendino con l’immagine di Mussolini). La formulazione finale, invece, elimina il riferimento alle “immagini”, e soprattutto la parola “solo”, ma mantiene l’avverbio “anche”. Ma che cosa vuol dire che è perseguibile chi fa propaganda “anche” attraverso la produzione, distribuzione, diffusione, eccetera eccetera? Significa “anche solo”, come nella prima formulazione? E allora la legge è chiaramente una minaccia alla libertà di espressione. O invece significa che per parlare di propaganda occorre “anche” la produzione, distribuzione, diffusione, eccetera eccetera, e allora la legge si applica esclusivamente alla propaganda supportata da supporti materiali? E’ facile prevedere che per alcuni giudici la produzione, distribuzione, diffusione di beni collegati saranno condizione sufficiente, per altri saranno condizione necessaria per perseguire i colpevoli. Insomma, un’ italianata fantastica, in cui la toppa è peggiore del buco. La politica non osa parlar chiaro, e demanda ai giudici l’interpretazione delle parole, volutamente ambigue, che decide di usare in una legge della Repubblica».

Tornando allo Ius Soli. Tommaso Cerno, nuovo condirettore di Repubblica, a luglio ha detto che il Pd sbaglia nel far passare il messaggio di una legge di «civiltà»: perché una motivazione etica nasconde una mancanza di argomentazione. Cosa ne pensa? 

«Sono completamente d’accordo con Cerno, di cui ho ascoltato attentamente le video-dichiarazioni (qui). A mio parere esistono ottimi argomenti pro e ottimi argomenti contro lo ius soli, ma qualsiasi cosa si pensi non è una “battaglia di civiltà”. Le battaglie di civiltà sono su scelte categoriche, tipo se sia permesso divorziare oppure no. Qui invece stiamo disquisendo su questioni di grado: dopo quanti anni e a quali condizioni si può diventare cittadini italiani. Sarebbe come dire che portare lo stipendio dei professori associati da 2000 a 2500 euro è una “battaglia di civiltà”. O che lo è dare la patente a 16 anni piuttosto che a 18. No, quando si tratta di questioni di grado, di quantità, di tempi e di condizioni, non stiamo parlando di battaglie di civiltà ma di scelte politiche, che vanno argomentate spiegando tutti i pro e tutti i contro, non agitando la bandiera della civiltà o del progresso. Su questo Tommaso Cerno ha perfettamente ragione: la sinistra non è stata in grado di spiegare la sua battaglia, nemmeno sul piano linguistico, visto che l’espressione ius soli vuol dire una cosa, e la legge proposta ne vuol dire un’altra».

 

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