Cronache

Pamela, la Dia lancia l’allarme: il clan dei “maphite” dietro al delitto

Claudio Bernieri

Intervista di Affari all’avvocato Marco Valerio Verni

Sino i nuovi network criminali: ecco gli Eije, i Maphite, i Vaticano, i Latina, la Rome empire, la Light Sicily, Chi sgarra tra gli adepti nigeriani  viene bruciato vivo... E’ l’inquietante analisi compiuta recentemente  dagli investigatori della Dia sulla mafia nigeriana.

Noto alle cronache giudiziarie come l’avvocato di parte civile nel processo che ha cercato di fare luce  sul delitto di Pamela  Mastropietro  processo che ha visto come unico imputato il  nigeriano Innocent Oseghale, condannato in primo grado all’ergastolo con isolamento diurno), Marco Valerio Verni è uno dei massimi esperti del fenomeno. Impegnato in diversi convegni in giro per l’Italia, a parlare di questa tematica, ha tra l’altro collaborato recentemente, proprio  con la sua analisi del delitto Pamela, in  uno  dei libri di questa estate (Ascia Nera, inchiesta sulla mafia nigeriana, ed. Excalibur-Presidio) ed a lui abbiamo chiesto un commento 

 

Avvocato Verni, è stato da poco pubblicato il rapporto della Direzione Investigativa Antimafia riguardante il secondo semestre del 2018: quali le sue considerazioni riguardo la Black Axe?

 

Partiamo da un dato: la Dia, il dipartimento antimafia nazionale, ha ritenuto di dover dedicare un capitolo a parte (un “focus”) sulla mafia nigeriana, ritenuta ormai l’organizzazione criminale straniera per eccellenza con la quale dovremo fare i conti nei prossimi anni. Non che le altre siano meno pericolose, anzi: alcune, collaborano con la prima, in un intreccio affaristico sempre più complesso e a vocazione marcatamente internazionalistica.

Ma la mafia nigeriana, purtroppo, è stata per molto tempo non vista, da molti, o sottovalutata, e solo ora, anche soprattutto grazie all’apporto di alcuni collaboratori, sta venendo fuori in tutta la sua devastante portata criminale.

 

Si parla di  Piovra Nera, della Quinta Mafia…un fenomeno sconosciuto ai più…Cosa ci dice la Dia?

 

Nella relazione vengono menzionati i Maphite che, in Italia, sono territorialmente suddivisi in quattro famiglie, tra cui quella Vaticana (sarebbe curioso scoprirne l’origine del nome, stante anche l’ossessivo richiamo di questo Papa all’accoglienza indiscriminata) che, avente la sede principale in Emilia Romagna, risulta però “controllare” anche la Toscana e, appunto le Marche.

 

 

Le Marche… Ovvero Macerata…Non possiamo che pensare alla povera Pamela…

Certo il  processo Oseghale, svolto a Macerata, dove emergono, a mio avviso, delle evidenze, gravi, precise e concordanti, che non possono non lasciar pensare che lo stesso imputato (condannato all’ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi lo scorso 29 maggio) ed altri (tra cui almeno uno degli stessi iniziali co-indagati Lucky Desmond, per il quale, insieme all’altro, Lucky Awelima, a seguito della nostra opposizione, è pendente il giudizio sulla loro archiviazione o meno), possano essere legati a qualche confraternita riferibile alla mafia nigeriana.

 

Ci faccia un esempio…

 

E’ lo stesso Lucky Desmond che, in una intercettazione ambientale effettuata in carcere, mentre parla col suo compagno di cella (proprio Lucky Awelima), dichiara di essere stato un “rogged”, quando era in Nigeria. Ebbene, tale termine viene usato nei rituali di affiliazione alla Elye Supreme Confraternity, come svelato da  indagini a Palermo, e di certo questa “circostanza” non può non destare una forte perplessità. Peraltro, come per la nostra mafia, anche per quella nigeriana, vi sono fortissimi vincoli dettati dall’omertà e dall’intimidazione (che, si badi, non deve per forza estrinsecarsi in violenza esterna, ma può anche fondarsi sulla semplice “nomea”, ossia il timore del sapere che essa esista e possa essere in qualunque momento agìta, a danno proprio o dei relativi familiari): per cui, non se ne può uscire che in due modi. O rimanendo uccisi, o perché si è deciso di intraprendere un percorso di collaborazione con le Autorità. Nel caso di Macerata, e, nello specifico, di Lucky Desmond, non mi sembra che quest’ultima cosa sia accaduta.

Ma ci sono anche altri elementi, processuali ed extra-processuali, che dovrebbero indirizzare gli inquirenti a cercare elementi atti a contestare, processualmente, l’associazione di tipo mafioso.

 

A quali elementi si riferisce? Rimprovera qualcosa agli inquirenti di Macerata?

 

Quanto alla prima parte della sua domanda, sono diversi. Per citarne alcuni, potrei iniziare proprio dagli arresti compiuti a Macerata, che hanno portato alla luce migliaia e migliaia di episodi di spaccio, avvenuti nel tempo, con la città addirittura divisa in zone, nelle quali operavano strutture ben organizzate, con organizzazione verticistica e piramidale. O, per venire al processo in sé, il comportamento molto chiuso sia dell’imputato che dei due co-indagati, Desmond ed Awelima, che, al di là di una strategia processuale, del tutto legittima, non possono però che richiamare il tipico atteggiamento omertoso di chi deve coprire qualcuno o qualcosa. Costoro hanno addirittura negato l’evidenza del contenuto delle stesse intercettazioni di cui prima ho accennato. Una cosa oggettivamente assurda.

E molto altro, tra cui le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, a cui lo stesso Oseghale avrebbe riferito di far parte della mafia nigeriana, e di essere un referente nelle Marche, considerate un crocevia importante tra il Veneto (Padova, in particolare) e la Campania (Castelvolturno, in primis).

Ancora, il Procuratore Giovanni Giorgio in persona- sempre stando alle notizie di stampa- ebbe a sottolineare la paura di alcuni interpreti nigeriani incaricati di tradurre gli atti di indagine: la prima, addirittura, coinvolta nel caso, si rese irreperibile. 

Ma anche lo stesso tragico modo in cui è stata ridotta Pamela, dovrebbe far riflettere.

 

Già, lei è anche lo zio di Pamela… e ha potuto vedere lo scempio fatto al suo cadavere…

Credo che sia necessario dover leggere il fenomeno della mafia nigeriana nel suo insieme, come un vero e proprio macrofenomeno, la cui analisi non può prescindere dalla conoscenza delle sue origini e delle sue correlazioni internazionali.

Un po’ come fu il ragionamento svolto da Falcone, Borsellino, Chinnici, Caponnetto e da tutto il pool che, nel 1986, portò al famoso maxi-processo, secondo i quali era sbagliato (come invece era stato fatto fino a quel momento) indagare e valutare gli episodi criminosi come singoli o a sé stanti, ma andavano invece studiati e rapportati nel loro insieme, per poter completare il mosaico e comprendere che si era alla presenza di un vero e proprio sistema. Di una organizzazione, appunto, secondo lo schema “reati-fine/reati mezzo”.

Il rischio che si corre, generalmente parlando (il discorso vale anche per le mafie autoctone, si intende), è che si lasci inesplorato un vasto campo di indagine, permettendo alla suddetta (mafia nigeriana) di continuare a crescere ed a proliferare.

Si tratta, in buona sostanza, di approccio mentale: se uno parte con l’idea che si voglia indagare l’esistenza di un sodalizio criminale di tipo mafioso, allora è chiaro che va a cercare alcuni elementi. Se, al contrario, si decide di voler indagare gli episodi criminosi come a sé stanti, allora è impossibile arrivare a incardinare un’ipotesi di reato secondo i criteri di cui al famoso articolo 416 bis del nostro codice penale. Ci vorrebbe, in tal senso, maggior forza, coraggio, determinazione. E, in alcuni casi, preparazione.

 

Ingredienti che sono mancati, a Macerata? 

 

Non voglio dire questo. Noi abbiamo fiducia nelle Istituzioni e non possiamo che, anche in questa sede, rinnovarla. Il lavoro che hanno svolto a Macerata è stato senza dubbio arduo e complesso. Ed ha portato a dei risultati oggettivi. Ma, secondo noi, manca un qualcosa.

Ciò premesso, vorrei comprendere perché, sempre basandosi su quel che si legge dalla stampa,  ai numerosi arrestati nelle diverse operazioni che sono scaturite anche e soprattutto a seguito delle indagini sull’omicidio di Pamela, non si sia arrivati a contestare neanche l’associazione semplice, ma tutt’al più un mero concorso. 

Tra l’altro, vorrei ricordare che, nel 2018, proprio a Macerata, è caduto in prescrizione un processo in cui erano a giudizio 21 nigeriani accusati di spaccio internazionale di sostanze stupefacenti (tra Porto Recanati e la Spagna), oltre che di induzione alla prostituzione e riduzione in schiavitù (reati compiuti nei confronti di 15 nigeriane) tramite la minacce di riti voodoo.

 

Le prime ad essere vittime sono spesso le stesse donne nigeriane.

 

E’ vero. Non a caso, è grazie alla collaborazione di alcune di esse che si sono potuti compiere passi da gigante nella conoscenza dell’organizzazione mafiosa nigeriana e nelle relative contestazioni in sede processuale. Anzi, come sottolineato dalla stessa Direzione Investigativa Antimafia, occorre valorizzare al massimo uno degli strumenti legislativi in nostro possesso, utile a far crescere la collaborazione da parte delle vittime della tratta delle schiave: mi riferisco a quello previsto dall’art. 18 del Decreto Legislativo n. 286/1998 (ossia il testo Unico sull’immigrazione) che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale al fine di “consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale”.

 

Quindi, è confermata la correlazione tra immigrazione irregolare e mafia nigeriana?

 

Certamente: è stato accertato- anzi, confermato- uno stretto legame tra il fenomeno migratorio irregolare, la tratta di persone e lo sfruttamento sessuale. In tale ambito l’organizzazione criminale controlla l’attività delittuosa in tutte le sue fasi, dal reclutamento fino all’attività su strada delle donne. Un processo criminale attuato attraverso modalità e fasi ben precise, cui è collegato il traffico di sostanze stupefacenti, che utilizza le medesime dinamiche, per certi versi.

La recente chiusura del Cara di Mineo può rappresentare un esempio di cosa possa comportare una immigrazione “mal gestita” (ed uso un eufemismo) nelle sue varie fasi.

 

Abbiamo, secondo lei, gli strumenti per fronteggiare questo nuovo fenomeno?

 

Credo, dal mio punto di vista, che l’esperienza accumulata nella lotta alle mafie nostrane sia un buon punto di partenza e che, già di suo, sia un know-how formidabile, utilizzabile anche nel contrasto a quella nigeriana o ad altre che potremmo definire “non tradizionali”.

Quel che occorre potenziare è la conoscenza del fenomeno, da parte di tutti gli attori coinvolti, a vario titolo, nella relativa attività di lotta e contrasto. Come dicevo prima, solo avendo una visione globale si può arrivare a comprendere il fenomeno, ad indagarlo correttamente e, all’esito, ad inquadrarlo, giuridicamente parlando, nell’ipotesi di cui all’art. 416-bis del nostro codice penale.

Poi, forse, occorre fare qualche ritocco al codice penale, inserendo nuove fattispecie di reato più rispondenti alle atrocità a cui, ad esempio, abbiamo assistito proprio nel caso di Pamela: un corpo che è stato disarticolato chirurgicamente (tale da risultare un unicum nella storia della criminologia mondiale degli ultimi cinquanta anni), scarnificato, esanguato, asportato dei suoi organi interni (poi lavato con la candeggina e messo in due trolley), non può rientrare in un “semplice” vilipendio di cadavere.

Molti passi si sono fatti, in questa direzione, ed anche la Cassazione ha segnato la strada, delineando più volte quelli che sono i tratti della mafia nigeriana: il vincolo associativo, la forza di intimidazione, il controllo di parti del territorio e la realizzazione di profitti illeciti.  

La battaglia è dura, ma bisogna essere fiduciosi.

-Ma torniamo al delitto Pamela. Osenghale paga per tutti e non parla. Pare ci si stata una cortina di silenzio intorno al processo… i giornali l’hanno messo in sordina…

Il delitto di Pamela è sicuramente scomodo da affrontare dal main streaming, perché racchiude in è diverse tematiche: dalle comunità terapeutiche che ricevono ingenti finanziamenti pubblici, all’immigrazione incontrollata, allo spaccio di sostanze stupefacenti, alla mafia nigeriana. 

-Come spiega il silenzio di Oseghale? 

Probabilmente copre qualcun altro. Noi abbiamo sempre sostenuto che non possa aver fatto tutto da solo. Qualcuno, almeno in qualche frangente, lo deve aver aiutato. Nessuno, sia chiaro, vuole coinvolgere per forza qualcuno che magari non c’entra per davvero, ma i fatti sembrano abbastanza evidenti.

 

-Sono state fatte indagini in Nigeria su Oseghale? Sui suoi familiari?

Ci risulta di no. Quel che è emerso, però, è che Innocent Oseghae sia venuto in Italia mentendo sin da subito. Egli, infatti, ha tentato di abusare del sacro diritto alla protezione internazionale, presentando apposita domanda, sulla scorta di essere, da quanto da lui sostenuto, figlio di un leader del partito Action Congress of Nigeria e che, nel luglio 2012, essendo stata proclamata la vittoria di tal partito in Edo State, i membri del movimento di opposizione si fossero recati presso la sua abitazione e che, non avendolo trovato, avevano ucciso il padre; ha ulteriormente affermato che, dopo l'accaduto, si era allontanato dalla propria abitazione, riparando ad Abuja, e che successivamente la madre lo aveva informato della morte del padre sconsigliandogli di far ritorno a casa in quanto ricercato dalla polizia come attivista del partito.
Né la Commissione Territoriale, né il Tribunale di Ancona nè, da ultimo, la Corte di Appello di Ancona, gli hanno creduto.

 

-Come commenta la scorta negata alla moglie del superpentito di ‘ndrangheta Marino, il supertestimone  che ha inchiodato Oseghale al processo? La moglie di Marino ha ricevuto minacce della mafia nigeriana, e non ha protezione dallo Stato.. Vive nascosta nel Sud,,..

Non sono certo io a dover ricordare l’importanza- con tutte le cautele dei singoli casi, ci mancherebbe- dei collaboratori nel contrasto alla malavita organizzata. Le nostre mafie, come anche quelle straniere, tra cui quella nigeriana, si possono combattere anche con il loro apporto. Si vedano le recenti inchieste di Palermo, ad esempio, dove, proprio grazie a delle prostitute che hanno deciso di denunciare l’organizzazione di cui erano schiave, si è riusciti a portare a processo ed a condannare alcune confraternite.

Marino, nello specifico, è risultato tra i tasselli chiave del processo, e, all’epoca, ha comunque deciso di rendere testimonianza nel dibattimento, nonostante le minacce ricevute dalla moglie, da lei ricordate. Aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza, chiaramente, ma la Procura di Macerata ha molto insistito sulla sua figura e sulla relativa attendibilità.

 

-Torniamo al mistero dei misteri… I due trolley lasciati ai bordi di una strada da Oseghale…e dentro, il cadavere fatto a pezzi di Pamela… Un  segnale per qualcuno? 

Chissà. Certo, tutto può essere. La stranezza di fondo è che abbia deciso di lasciare quei trolley in mezzo alla strada, dopo aver fatto tutto quel “lavoro” sul corpo di Pamela. Un segnale per qualcuno? Dovevano essere presi da qualcun altro? Interrogativi che ci poniamo e che si collegano alla nostra convinzione che Oseghale non abbia fatto tutto da solo e che anche altri abbiano preso parte alla vicenda.

-Nel libro inchiesta Ascia Nera, al quale lei ha collaborato una ex schiava nigeriana rivela che Trolley è il nome in codice dello sfruttatore, del magnaccia all’interno della mafia nigeriana, Ha un senso questo indizio?

Anche le nostre mafie sono caratterizzate da un forte simbolismo. Un gesto che per un comune mortale può non poter significare nulla di particolare, letto invece nell’ottica dell’organizzazione criminale può, invece, voler dire molto. 

Nel caso di Pamela, si è voluto leggere il tutto come un reato comune e, di conseguenza, anche il resto.

 

-Le fotografie del cadavere di Pamela fatta a pezzi non sono mai state mostrate al pubblico: troppo devastanti, troppo inquietanti… e forse politicamente scorrette. Sono state secretate? Quando verranno alla luce?

Sono già pubbliche, in teoria. Ma basti ricordare che il Presidente della Corte di Assise di Macerata, quando si è trattato di doverle proiettare in aula, ha preferito svolgere le udienze a porte chiuse, senza pubblico.

Da parte nostra, abbiamo rispettato la scelta, giusta dal punto di vista dell’ordine pubblico, anche se il popolo, d’altro canto, dovrebbe vedere l’efferatezza di quanto fatto a Pamela. Qualcuno ancora pensa che, tutto sommato, sia già accaduto, da noi. No, non è così. Quel che hanno fatto a Pamela è un unicum, purtroppo. Lo hanno confermato sia il Ris dei Carabinieri che il consulente medico-legale della Procura.

 

- Visto il silenzio omertoso  degli imputati, il processo verrà silenziato e archiviato in futuro ? Il caso Pamela potrebbe essere l’uitimo della serie  “I Misteri italiani”…

Beh, ora, come dicevo prima, attendiamo le motivazioni della sentenza di primo grado, intanto. La Corte si è presa ulteriori novanta giorni, rispetto a quelli inizialmente dichiarati, stante la complessità del caso.

Di sicuro, almeno ad ora, rimangono tanti punti interrogativi. Quel che chiediamo, è che chi di dovere non si fermi a quel che, ripeto con forza, è solo il punto di partenza, ma che continui ad indagare. Da parte nostra, continueremo a sollecitare gli organi inquirenti in tal senso. Ce lo chiede Pamela e la stragrande parte dell’Italia. Quella per bene, quella che ha capito che, dietro il suo martirio, c’è veramente tanto altro che, al dunque, può riguardare davvero tutti.