Cronache

Pa e semplificazione: il problema è culturale, non amministrativo...

di Fabiano Santo

IL SOSPETTO CHE IMPEDISCE LA SEMPLIFICAZIONE

Come è noto i latini affermavano “summum jus, summa iniuria”. Qualcuno attribuisce questo aforisma a Cicerone, ma il significato è certamente più antico, così come è attuale. La preoccupazione di regolare ogni cosa con nuove prescrizioni, non è proprio una deriva moderna. Ma già nelle prime manifestazioni del diritto si era raggiunta la consapevolezza che il diritto e le leggi non potevano rappresentare la soluzione per ogni problema. Anzi, l’eccesso di normazione (summum jus) può persino portare al risultato opposto, generando ingiustizie (summa iniuria).

Qualche tempo fa un ministro dei rapporti con il Parlamento affermò che «sono 187mila le leggi emanate dalla nascita dello Stato unitario a oggi». E nello stesso periodo l’istituto poligrafico dello Stato informava che «Gli atti normativi in vigore sono circa 111mila», facendo riferimento esclusivamente alla legislazione nazionale pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

E pensare che le leggi, sembra strano a dirsi, sono il “male minore”. Da diverso tempo, infatti, si è pensato di “semplificare” introducendo sistemi di “soft low”, cioè di “legislazione leggera”, che di leggero ha solo la modalità di attuazione, perché è proprio a causa di questa “produzione creativa” che nel nostro Paese assistiamo alla paralisi dell’attività amministrativa.

I provvedimenti della “normazione leggera” sono infiniti e non tutti agiscono nel pieno rispetto della gerarchia delle fonti, cioè non tutte rispettano l’ambito di competenza o le norme di rango primario o persino la Costituzione.

Basti pensare alla produzione infinita di “circolari ministeriali” che, a dispetto delle previsioni normative e della giurisprudenza costante, continuano a disciplinare ambiti riservati alle leggi dello Stato. Con una delle recenti sentenze, il Tar Lazio, nel 2019, ha dovuto precisare che “le circolari amministrative sono considerate norme interne o atti interni che non hanno natura non normativa ma amministrativa e ha effetti che possono essere vincolanti solo per gli organi e gli uffici dell’Amministrazione”.

Per non parlare degli “orientamenti”, una forma di atto utilizzato dall’ANAC con il quale, in diverse circostanze sono state interpretate norme di legge o introdotte nuove disposizioni. Per non parlare dei “comunicati del Presidente”, con i quali, in palese contrasto con qualsiasi principio giuridico (e di buon senso), sono stati spostati dei termini fissati con norma di legge.

Nessuno mette in dubbio la buona fede di questi interventi, ma inevitabilmente rappresentano una pericolosa forzatura del sistema normativo. E sorprende che vengano operati proprio da chi ha il compito autorevole di sostenere il rispetto delle norme.

Ma il tentativo più evidente dell’accanimento prescrittivo, inteso come soluzione ai problemi del Paese, è avvenuto con le “linee guida”. Senza entrare nel merito della loro opportunità o dell’utilizzo che se ne è fatto, anche per colmare lacune normative, interrogando il portale “giustiziaamministrativa.it” si rileva che, ad oggi, si contano ben 17.547 cause amministrative che si richiamano a quel “tipo di provvedimento”.

Viene da chiedersi, alla luce di tutto questo, e nella certezza della “buona fede” di tutti i soggetti istituzionali, che cosa aspettiamo per accorgerci dell’esigenza di adottare un sistema diverso e realmente più efficace. O più semplicemente, poiché le informazioni sulla paralisi normativa e amministrativa non sono affatto nuove, viene da chiedersi che cosa ci impedisce di operare in direzione di una vera “semplificazione”.

Al riguardo, qualche giorno fa, Vincenzo Visco, su Il Sole 24 ore, attribuiva ogni responsabilità ai “cultori del diritto amministrativo”. In verità, con tutto il rispetto per l’autorevolezza dell’autore e delle argomentazioni, se volessimo datare un momento in cui il sistema amministrativo ha registrato il maggiore rigore, è proprio a seguito degli interventi prodotti con la cosiddetta “riforma Brunetta” (2009), la cui ispirazione e il cui impianto sono dichiaratamente di “natura economista”. La norma contiene persino articoli in cui i laureati in economia e ingegneria sono preferiti ai giuristi. È dello stesso periodo (maggio 2008 – 2010) la proposta di abolire l’Alto commissario per il contrasto alla corruzione, per sostituirlo con un’Autorità specifica. Ed è in quel periodo che si è affermato il principio del “sospetto” verso la pubblica amministrazione e lanciata la campagna di ricerca dei “fannulloni”, proponendo some soluzione l’introduzione di rigidità, derivanti da indicatori o vincoli o nuovi adempimenti, peraltro, tutti strettamente collegati a sanzioni, in caso di mancata attuazione.

Il vero ostacolo alla semplificazione è proprio questo: la diffusione del sospetto verso ogni forma di autonomia e discrezionalità. E non è questione giuridica o economica, ma di radicamento sociale. Ed ha una radice ben precisa: la cattiva gestione della giustizia.

Nel nostro Paese, infatti, chi sbaglia, difficilmente paga. E di solito paga chi non ha colpe, ma ha soltanto violato norme formali. Però, invece di agire sul sistema giudiziario, per renderlo più efficiente e funzionale, anzi nella certezza che non funziona, si è pensato di agire introducendo logiche di tipo prescrittivo per “indirizzare l’azione amministrativa” in modo “corretto”. Intendendo per “correttezza”, il semplice rispetto delle prescrizioni procedurali. Se poi, come accade, le prescrizioni sono eccessive, verbose, inadeguate o persino illegittime, poco importa. E non importa nemmeno che siano inefficaci. Tutto si ritiene in ordine se rispetta la procedura, indipendentemente dagli esiti. Come si suol dire: l’operazione è risuscita, ma il paziente è morto.

La semplificazione non è un “problema amministrativo”, ma culturale. E si può avviare solo se si abbandona il clima di sospetto verso qualsiasi operatore e si orienta l’attenzione verso gli esiti dell’azione amministrativa.

Se gli operatori delle pubbliche amministrazioni fossero chiamati a rispondere effettivamente degli esiti, anche in modo dettagliato, più che del rispetto dei vincoli procedurali, avremmo una pubblica amministrazione più efficiente e funzionante.

Ma perché ciò avvenga sono necessarie due condizioni: abbandonare il sospetto verso chi agisce nell’interesse pubblico e rafforzare il sistema giudiziario affinché chiunque approfitti della propria autonomia, orientandola verso finalità diverse, sia chiamato a risponderne realmente.

E la prima mossa potrebbe essere affidata proprio all’ANAC che, grazie alla nuova guida, potrebbe rivedere la propria azione orientandola sulla logica contestuale delle scelte adottate e sui risultati effettivamente conseguiti, in termini di beneficio pubblico, piuttosto che sulla mera predisposizione di documenti o fogli di calcolo o sul rispetto di indicatori.