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Cronache
Perché l’Italia è paralizzata. Un anno fa moriva il giudice Romano De Grazia

“Ormai la magistratura è pervasa dalla malattia delle carriere, del potere e dei soldi. Ci ho dedicato la vita ma non è più quella in cui sono entrato io”, mi disse lapidario nella primavera-estate del 2018 il presidente aggiunto onorario della Suprema Corte di Cassazione Romano De Grazia, l'ultima volta che ci sentimmo. Calabrese, De Grazia, fine giurista e uomo di profonda cultura e generosità ci ha lasciati circa un anno fa, l’1 ottobre 2018, e questa intervista, questo scambio (uno dei tantissimi avuti tra il 2015 e il 2018) è rimasto inedito. Gli avevo promesso una pubblicazione nell’autunno successivo, ma la notizia improvvisa della morte mi ha come gelato e messo di fronte all’inutilità di ogni atto, di fronte ad uomo che si commuoveva quando parlava di chi è indifeso, così come alla tristezza di sapere che non era più fra noi con quell’energia travolgente con la quale ti parlava.

 

Consumato dalla stanchezza e dalla fatica di non essere ascoltato, lui che aveva tante cose da dire e che da maestro elementare solo con i propri mezzi era arrivato ai più alti gradi della magistratura italiana, le parole di De Grazia restano di profonda attualità. Ancora di più oggi, dopo il cosiddetto “scandalo Palamara” che ha travolto la magistratura ma che si è inabissato nel silenzio dei media e in nessun provvedimento riformatore. De Grazia era un uomo integro, colto, di un’intelligenza pungente ma rimasto umile. Aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita a girare l’Italia per fare approvare la legge Lazzati, il provvedimento che lui stesso aveva scritto, dedicato al maestro Giuseppe Lazzati, che vieta la propaganda elettorale a chi è collegato ai clan ed ha gravi indizi di affiliazione anche se ha già pagato una pena. Un divieto che dovrebbe essere un fatto elementare ma che in Italia viene adottato in una versione edulcorata e inutile: agli affiliati è solo vietano affiggere manifesti e distribuire santini elettorali ma possono finanziare candidati o sovvenzionare liste. Ridicolo!

 

De Grazia era riuscito a fare passare il provvedimento durante il secondo governo Berlusconi ma per un emendamento la legge era stata approvata in una versione spuntata e inutile. “Uno smacco insanabile, una vergogna”, diceva mentre con la solita generosità profondeva valutazioni giuridiche a chiunque in difficoltà gli chiedesse un aiuto.

“Voglio costruire un moto di ribellione a questo scempio. I futuri italiani, fra cent’anni, guardando il nostro tempo, che penseranno? Che eravamo tutti collusi con la mafia”.

 

Ma la politica continua a non fare niente...

“Ogni tanto qualcuno prende a cuore il provvedimento e ne fa una battaglia. Ma di tipo elettorale. Cioè la usano prima delle elezioni. Poi andati al potere neanche mi rispondono più al telefono. Ho girato tutto l’arco costituzionale, ormai. E’ successo anche con giornalisti famosi che tutte le sere vedo in tv. Prima ti dicono ‘giudice di qua, giudice di là’ poi quando bisogna andare al dunque scompaiono, neanche ti rispondono più”.

 

E come si spiega?

“Forse perché sentono la parola magistrato e pensano che possa girare loro qualche notizia confezionata (ride). Molti sono abituati così. Sono giornalisti da scrivania, il territorio non lo vedono da anni. Altro che giornalisti da riporto. ‘Da riporto’ mi fa ridere. Neanche la vanno a prendere la notizia, aspettano che arrivi direttamente sulla scrivania”.

 

E’ anche una critica alla sua categoria però…

“Ormai la magistratura è pervasa dalla malattia delle carriere, del potere e dei soldi. Ci ho dedicato la vita ma non è più quella in cui sono entrato io. Neanche ai miei tempi erano tutti santi. C’era gente, quando sono stato a Messina che non voleva fare processi pericolosi ed arrivavano tutti a me o altri con tali appetiti che una volta alleviati trovavano la via giusta per decidere (fa un ghigno, ndr). Ma sposare in toto certe linee di potere, come si fa oggi, ti fa andare nelle procure che desideri e fare carriera, capisci? Ma questa non è più giustizia è un’altra cosa.”

 

Lei è un giudice. Per spiegare queste cose dovrebbe essere invitato in tv al posto di certi tromboni...

“Si, proprio tromboni (ride di gusto, poi si fa serio, ndr). Sono odiato nei salotti televisivi ma mi basta la stima, proprio per aver scritto la Lazzati, dei compianti fuoriclasse del diritto penale Federico Stella, Vittorio Grevi, o dall’ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Ruperto e dell’ex capo della Procura nazionale antimafia Franco Roberti”.

 

E questa malattia della magistratura? 

“Ho sempre pensato alla giustizia come allo strumento per difendere chi è vittima di soprusi. Ma bisogna stare nella società per capire cosa sia un sopruso, osservarlo nei fatti, sennò ce ne facciamo solo un sogno nella testa”.

 

E invece oggi?

“Dicono che siano finite le ideologia ma poi la gente decide più sulla base delle proprie convinzioni, noi sui fatti reali. E’ la generale tendenza del nostro tempo”. 

 

Lei dice sempre che soprattutto per il Sud fermare lo scambio tra politica e mafie è tutto, per liberare il meridione dal giogo della criminalità organizzata. Ma la sua legge che futuro ha?

"Non lo so. Vorrei farla approvare prima di morire ma intento viene solo usata come argomento per emergere. Non c’è serietà. Politici e giornalisti, almeno tanti, sono affamati di potere. Ce ne sono sempre stati. Ma badare solo alla visibilità e al potere ci fa perdere di vista la cosa più importante che è il valore della libertà e di cosa ci stiamo a fare su questa terra”.

 

Non c’è un confronto franco quindi...

“No. Eppure io ne ho avuti di confronti franchi (ride divertito, ndr). Come il vero battesimo della legge Lazzati che avvenne nel 1993 ai piedi dell’Aspromonte, con la presentazione nel Comune di San Luca, in mezzo ad una faida di ‘ndrangheta con mia moglie e mia figlia presenti. Noi la presentiamo e un uomo prende la parola con aria di sfida dice: ‘Sono Francesco…, il capo della malavita locale... giudice, cosa è venuto a fare qui? Le consiglio di andare a chiedere la grazia alla Madonna di Polsi… egregio giudice De Grazia’. Il gioco di parole con il mio cognome era una presa in giro. Il gelo calò in sala tra i volti pallidi dei carabinieri e delle autorità presenti. Replicai: ‘Egregio capo della malavita locale, visto che lei si è qualificato con questo titolo professionale, sono venuto qui con famiglia e amici per portare la solidarietà ai tanti cittadini onesti di San Luca lasciati soli, vittime di quattro cialtroni come lei’. In sala ci fu il panico. Poi i carabinieri ripresero colore. Il malavitoso si scusò e voleva invitarmi al bar. Ma gli dissi: ‘io al bar con lei non ci verrò mai’. Ecco, per quanto deprecabili, questi scambi erano più franchi che quelli con alcuni tuoi colleghi”.

 

C’è una sorta di pantano di potere che lega chi ha visibilità e la politica, che non permette alle questioni vere di emergere finendo sotto i riflettori per quanto meritano...

“Si, proprio così. E’ per questo che l’Italia è paralizzata. Ma io sono un cattolico ed ho speranza negli uomini e nella voglia di ribellione dei giovani che proveranno a trovare strade nuove”.

 

Dopo questo scambio, tra la primavera e l’estate del 2018, non ci siamo più sentiti. Io voglio ricordarlo così, come un uomo buono e intelligente, il portatore di quell'energia vitale che possa condurre i giovani verso le strade nuove in cui tanto sperava.

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