Cronache

Scuola, il successo formativo? Insegnare a vivere, non solo a stare al mondo

di Annalisa Ghisalberti

Riprende la scuola in Italia dopo un lungo periodo di chiusure e pandemia: ecco alcune riflessioni

Riflessioni sul principio della scuola 

Arrivo a settembre pronta per riprendere la scuola: la mente immagina e progetta, pianifica e desidera che la ripresa rassicuri e insieme rinnovi gli incontri, comprenda più a fondo, disveli i saperi. Leggo nei programmi politici le urgenze della Scuola e fatico a credere, a volte alle analisi, a volte alle soluzioni prospettate. Cercando di intaccare la mia incredulità, mi interrogo allora sulle mie urgenze.

Tanti ragazzi si sono "persi" durante la pandemia, hanno abbandonato interesse per lo studio, hanno dimenticato la fiducia, manifestato insofferenza a stare soli prima e a stare insieme poi, una volta rientrati in classe e nelle piazze o nelle discoteche, a stare in relazione tra loro e con gli adulti. Tante le motivazioni evocate a spiegare il fenomeno, ma non possiamo tacere della scuola.

La scuola negli anni ha mancato il suo obiettivo e con lei lo hanno mancato i singoli individui che fanno la scuola e i tanti che fanno la società e il Paese. I ragazzi non hanno potuto attingere a un bagaglio di risorse interiori che consentisse loro l’adattamento, che li consolasse nella solitudine, che li motivasse all'impegno, che li sostenesse nella speranza. Non solo gli studenti, però, non avevano le risorse a cui attingere: l’impressione è che non le avessimo noi docenti e genitori. E allora il fallimento è più grave, più generale, attraversa la scuola nel tempo, ma attraversa quella scuola che è la società. Non si tratta solo di competenze digitali, essenziali ma strumentali. Le competenze mancanti sono quelle che costituiscono i caratteri tipici dell’umano: la comprensione, l’adattamento, la cura.

La pandemia non è la causa

La pandemia, spesso additata a causa del malessere che pervade oggi i ragazzi, non è la causa ma solo l'occasione. La causa preesisteva ed era il nostro mondo, quello creato da noi adulti. Matteo Lancini (Presidente della Fondazione Minotauro) ce lo ha detto quasi arrabbiato. Leggere il suo ultimo libro (L'età tradita, Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti) può essere un'esperienza faticosa per chi come me, mamma, adulto e insegnante, si sente continuamente chiamata in causa dalle sue parole, a rispondere di situazioni di disagio, errori strategici, assenze deludenti, presenze ossessive e ingombranti.

Ma è uno sforzo che va fatto. Descrive un mondo senza giardinetti in cui permettere ai bambini di giocare, ma reso palcoscenico su cui esibire le loro esistenze finché interessano gli adulti e da cui lasciarli improvvisamente esclusi quando l'errore non è più qualcosa di cui sorridere insieme via social e la goffaggine diventa morbo sociale che inibisce le amicizie. Il problema si rende evidente quando il bambino diventa adolescente. Allora ci si aspetta che il quadro prenda forma e che il soggetto costruisca il proprio successo formativo senza intoppi e senza ostacoli.

Ma soprattutto senza tristezza. Non sopportiamo proprio che i nostri figli siano tristi. Piuttosto siamo disposti a sperare che vogliano ancora ribellarsi, come gli adolescenti di qualche decennio fa, immaginiamo che ci debbano osteggiare per liberarsi di noi. Ma per ribellarsi dovrebbero avvertire norme stringenti che li allontanino dalla loro felicità, ostacoli sul cammino, che invece spesso non ci sono. E così capita che si ripieghino su se stessi: si chiudono in casa, talvolta prendono a farsi del male, si tagliano, non mangiano o mangiano troppo, non dormono.

Punto e a capo: la crisi inutile

Quando ripensiamo allo spavento e al dolore dell'inizio della pandemia, al primo lockdown forse ci tornano ancora in mente i propositi di cambiamento, le prospettive di rinnovata collaborazione sociale promosse dai più impavidi, rapidamente zittiti dagli uomini di mondo. La paura e il dolore univano e suscitavano solidarietà, la consapevolezza degli errori muoveva riflessioni e impegni per il domani. Ma prima, molto prima della fine della pandemia abbiamo annullato la crisi, abbiamo vanificato la sua potenza, adeguandoci al modello preesistente: abbiamo riempito le giornate di aperitivi virtuali, corsi virtuali, esorcizzato il pensiero della morte imparando a citare i numeri, stordendoci di grafici e previsioni, rincorso nuovamente modelli di adeguamento sociale, incapaci di liberarcene.

E alla riapertura anche la scuola non è apparsa cambiata: ancora una volta è accusata di non aver saputo cogliere l'occasione, di non avere accolto i ragazzi, di non averli messi al centro, di non avere capito. E ognuno immette nell'accusa tutta la fatica e la frustrazione di vedere un figlio soffrire, di non vederlo capace di tornare a divertirsi ora che finalmente può uscire con i compagni, di vederlo faticare ad accettare le nuove regole, di non vederlo ripagato in modo immediato e spontaneo del sacrificio fatto. Le scuole hanno agito: si salvano i singoli, i casi di impegno e buona volontà – si sente dire - ma la Scuola nel suo insieme risulta ancora sotto accusa.

Affidarsi alla scuola

I nostri giornali, i nostri social pullulano di life coach, evoluzione laica del padre spirituale, un supporto meno impegnativo e insieme più ricercato da quando il "bonus psicologo" ha reso nazional popolare la psicoterapia. E la scuola, ci si immagina, dovrebbe essere life coach per antonomasia. La richiesta è formalizzata da anni: tutte le educazioni (da quella finanziaria, a quella civica, a quella sessuale) dovrebbero far parte dell'offerta formativa. Si delega. Per povertà, per incompetenza, per disperazione, ma spesso per finta. Nel senso che non c'è alcuna consapevolezza nella delega.

C'è presa d'atto del vuoto all'intorno che non consente che rivolgersi all'unica istituzione nazionale che ancora obbligatoriamente intercetta ampie masse. Ma delegare significherebbe affidarsi e ci si può affidare solo dopo avere riconosciuto un bisogno, individuato una risorsa, tracciato una strada. Ci si affida con un consapevole atto di coraggio. Nessuno invece si affida davvero alla scuola: chi perché non ha gli strumenti per cogliere il dramma della necessità; chi perché non ha il coraggio che questo abbandono implica, manca di stima nei docenti e nei dirigenti, di fiducia negli studia e allora svilisce l'impresa, pensando di vigilare su di essa, a volte provando a manipolarla per il proprio interesse o a costringerla nelle trame di corporativismi anacronistici; chi perché, pur avendo il potere di farlo, non investe nella scuola.

L'intoppo

Ne deriva un intoppo: non si investe davvero nell'unica fonte da cui ci si aspetta poi una soluzione, da cui ci si aspetta la formazione e l'educazione della popolazione. Sciascia ci avvertiva già diversi decenni fa che si può perfettamente attraversare tutto il sistema di istruzione italiana senza esserne toccati affatto, restando perfettamente ignoranti, e oggi potremmo allargare la portata di questa ignoranza, visto che non sembrano esserci altri in grado di colmarla. Invece di far finta di niente, meglio scandalizzarsi. Perché lo scandalo è inciampo, ostacolo, caduta che costringe a sostare e a rialzarsi. Perché solo se ammettiamo la crisi e la studiamo nella sua interezza e complessità, possiamo sperare di intravedere e poi intraprendere una soluzione.

Il successo formativo: insegnare a vivere

Insegnare a vivere e non solo a stare al mondo. Non è compito esclusivo della scuola, non è neppure – si dirà - un compito diretto, ma se non si vuole condannare la scuola alla totale incomunicabilità e indifferenza all’uomo, occorrerà pensare almeno che essa possa accompagnare in questa direzione, fornire un habitus, uno stile e un metodo che induca a sviluppare queste competenze come un’attitudine, che poi emerga nella vita sotto la sollecitazione degli eventi, del passare del tempo, delle relazioni, dell’io stesso.

Quando presentiamo i nostri studi liceali, convinti inneggiamo all’idea che dallo studio dei classici o delle scienze, dalla riflessione e dalla ricerca, dal rigore e dal metodo, dalla difficoltà dello sforzo e dall’abitudine a non rifuggirlo derivi la capacità di approcciare i problemi e le realtà complesse del presente con comprensione, metodo, rigore. Che dalla bellezza ritrovata nelle idee, nei testi, nelle opere artistiche, nasca la passione per il bello, il giusto.

Occorre incarnare questa idea a scuola: darle corpo, gesti e voce nelle nostre lezioni perché sia visibile, tangibile, credibile. La lezione di Edgar Morin è chiara: non occorre una "testa piena" ma una "testa ben fatta", non dobbiamo puntare a riempire le teste dei nostri studenti, ma dobbiamo insegnare loro a guardare in faccia la complessità, sempre nuova, del mondo e della loro vita, a non banalizzarla e a non scansarla. Questo significa "insegnare a vivere" con gli strumenti specifici della scuola. Occorre che ci prendiamo cura di questa dimensione se vogliamo sperare in un 'successo scolastico' che non sia il successo della scuola o dell'uscirne senza troppi danni.