Culture
"Soverato", nuova silloge poetica di Ottavio Rossani
Recensione di Lidia Sella
“Si stende arruffata / dalla collina al mare, / tra l’Ancinale e un torrente.” “Lingua di terra sole sale e venti africani.” A descrivere così Soverato, ampia insenatura lungo la costa ionica della Calabria, è Ottavio Rossani. Nato nel 1944, a poche decine di chilometri da lì, negli anni si è talmente infatuato di Soverato da averla eletta a sua patria affettiva, un rifugio per l’anima. E appunto con il toponimo di Soverato il poeta ha intitolato la sua più recente silloge, una miscellanea di editi e inediti, pubblicata a maggio 2019 ne I Quaderni del Bardo dall’editore Stefano Donno di Lecce.
Queste liriche di Rossani sono pervase di una saggezza e una sensibilità che sembrano venire da lontano. Forse nelle vene gli scorre sangue di Ioni, Dori e Achei, stirpi di provenienza indoeuropea che, in Magna Grecia, edificarono avamposti di luminosa civiltà. Magari i suoi cromosomi custodiscono schegge di quell’inconscio collettivo dal quale scaturirono l’Odissea, la mitologia greca, il senso tragico della vita, la dimensione estetica, la filosofia, l’ironia, la smania di esplorare. Se, nella cittadina di Soverato, l’autore vede la sua Itaca, può darsi dunque non sia solo un caso.
E, in effetti, i testi qui raccolti parlano molto del viaggio, in un’accezione anche metaforica, sentieri che partono dall’ombelico, dall’origine, poi si snodano nello spazio, nel tempo, e verso mete interiori. “Uno solo è il centro del mondo /... quello in cui si nasce. /... Il filo che si è dipanato / alla partenza torna indietro, / boomerang che collega / tutto in un cerchio perfetto.”
Soverato, per Rossani, è il nucleo geografico che sprigiona quell’energia vitale capace di donare senso all’esistenza e che, nonostante il suo cammino di giornalista l’abbia condotto a girare in mezzo mondo, funziona come una potente calamita che lo induce ogni volta a tornare lì, per sentirsi finalmente di nuovo sé stesso, davvero a casa. Paradigmatico, in tal senso, un passo tratto da Le nuove rotte, Prima visione: “Nascere è una complicazione, sempre e dovunque. / (...) una corsa a ostacoli nello stadio della sopravvivenza. / Sarò più preciso: nascere in un paesino isolato, / vuol dire crescere con gli occhi fissi sull’orizzonte, / immaginare cosa c’è dietro le Colonne d’Ercole, / è un continuo torcicollo, / (...) / Partire, partire, ansiosamente esplorare nuovi spazi, / vasti come praterie percorse da bisonti, / (...) Vicenda dell’uomo alla ricerca del nuovo. / L’eterna partenza perché possa esserci un ritorno.”
È questo un affascinante mistero, studiato in antropologia. L’essere umano è un animale legato al proprio territorio, al proprio gruppo, alla propria lingua. Le nostre prime sinapsi si plasmano a partire da un certo contesto sociale, che presenta caratteristiche diverse per ogni civiltà e, al tempo stesso, forma uno sfondo comune per tutti i membri di una determinata comunità, un tessuto nelle cui maglie il singolo individuo rimarrà impigliato, e avvinto, finché avrà vita. Chi è lontano dalla sua terra, dal suo popolo, dal suo idioma, si sente sradicato, e ne soffre. Perciò l’esilio è tanto crudele, che si tratti di una libera scelta, dettata da esigenze di studio e carriera, sogni di gloria, chimere amorose, oppure che vi si sia costretti dall’indigenza, da una condanna, dalla guerra, il risultato non cambia, la nostalgia non ci dà tregua, ci stritola nella sua morsa.
Se per noi occidentali Ulisse rappresenta una figura mitica è forse perché riflette in sé il dubbio, l’esitazione, l’angoscia di fronte al bivio, alle scelte cruciali, l’arrovellarsi per imboccare la strada giusta e la determinazione a superare gli ostacoli lungo il percorso. Simboleggia e incarna, in particolare, la condizione di chi è in bilico tra queste due pulsioni contrastanti: da un lato, una sollecitazione centrifuga, che alimenta la curiosità intellettuale, ci spinge a mollare gli ormeggi e a veleggiare in alto mare, per indagare, scoprire, inventare, decifrare l’universo che ci circonda, spostare più in là i confini della conoscenza; dall’altro, una forza centripeta, che acuisce il dolore della distanza e accende la “febbre del ritorno”. Sovente è proprio la ricerca di un equilibrio che consenta di conciliare queste correnti antagoniste a dare una svolta al nostro destino, a indicarci la direzione giusta da seguire, per realizzare al meglio le nostre potenzialità. Come in fondo è successo anche a Ottavio.
Altro topoi centrale in questa raccolta è l’ancora salvifica del ricordo, unico antidoto a evitare che, in assenza di memoria, l’identità si sgretoli, sul piano tanto dell’identità personale che storica. E, a comprovare quanto Rossani sia maestro nell’arte del rammentare, riportiamo questo commovente flashback : “La casa arancione era al centro / di una pianura lussureggiante, / ogni stagione le sue primizie. / Alberi, distese di cetrioli, pomodori, / si passava in mezzo ai filari / senza preoccuparsita delle bisce. / Prima della spiaggia c’era un casolare / dove offrivano zuppe di ricotta. / D’inverno si andava a caccia di tordi. / Fu l’unico tempo spensierato, / rimasto nella memoria come un altare.”
Tante insomma le scintille a rischiarare il cielo poetico di Ottavio.
Gli scenari che l’autore tratteggia rivelano una particolare attenzione verso la luce, una dedizione ispirata con ogni probabilità dal suo sguardo di artista e pittore. Una veduta notturna di Soverato, da lui realizzata, è stata peraltro utilizzata come immagine di copertina. Benché, nella scrittura, Ottavio utilizzi soltanto due strumenti per tentare di imprigionarla, carta e inchiostro, la luce viene qui colta nella sua duplice natura, corpuscolare e ondulatoria, materica e spirituale, fotografata in una veste oggettiva e lirica insieme. “La luce irrompe (... ) nella quiete del mondo che aspetta.” “Il nitore della luce d’Oriente.” “I tramonti furiosi del Sud.”
Emozioni intense, rese con una precisione linguistica quasi matematica, abbinata a una sapiente tensione evocativa, accompagnano il lettore dall’inizio alla fine.
Quel brivido di commozione che si prova dinanzi alla bellezza, per Rossani si traduce in una comunione cosmica con il creato. Ascoltare “il fruscio della pineta”, “i dolci silenzi della notte”; contemplare il “mare torvo” che “si abbuia”; lasciarsi ammaliare dalla “mutevolezza immutabile”del paesaggio; abbandonarsi all’abbraccio delle onde: tutte esperienze che, se vissute in un luogo amato, per noi Sapiens diventano quasi mistiche. Fenomeno inspiegabile, sul quale il testo di Rossani ci invita a riflettere.
E poi gli amori defunti, trascinati via dalla “magia sconosciuta” del tempo e che, purtuttavia, sopravvivono in noi. Come questi versi dalla inequivocabile vena autobiografica testimoniano: “In testa girava una sola immagine: / quel tuo viso trasognato che ha cambiato / per sempre il ritmo del mio sangue.” “Voleva tornare con un cavallo bianco / prendere la sua donna e ripartire.”; “Amo la donna che mi ha amato.”; “Evocare, oltre l’abisso, il profilo / dell’unica donna amata.”
Ottavio rivede “le anime perse (...), i volti sapienti”, prova rimpianto per gli eventi precipitati nel gorgo del passato, episodi accaduti in epoche che appaiono distantissime. Eppure ha l’abilità di catturarli nella rete del narrare. Nelle sue composizioni poetiche, a stemperare l’amaro della malinconia, spesso viene in soccorso un pizzico d’ironia. “Si salivano centonovantasette scalini, / fino alla terrazza panoramica. / Si prendeva fiato e si ammirava / la distesa verde o blu dello Jonio. / I libri sottobraccio legati da un elastico / si entrava in chiesa a riposare e pregare. / La prima orazione era l’auspicio / di scoprire presto un mondo senza salite.” Oppure: “La festa di San Rocco d’estate / era quella che richiamava più gente, / (...) / L’offerta più generosa quell’anno venne / da un ricco commerciante di mucche, / che aveva spezzato un’anca / alla fidanzata rea di un sorriso / a uno straniero.”
In poche, sintetiche espressioni, Rossani afferra il nucleo, condensa l’essenza di una situazione umana. Questi “aneddoti in poesia” confermano il suo fiuto di cronista, professione che per decenni ha esercitato al Corriere della Sera. Ottavio osserva i dettagli, “raccoglie tutti gli indizi come reperti”, li archivia gelosamente nei cassetti della sua mente, dopodiché intesse trame di parole immaginifiche, che si imprimono in noi come scene di un film d’essai. Non senza una certa amarezza, così egli si autodefinisce: “Io sono l’ultimo testimone della storia minima / delle figure che subirono la grande afflizione.”
La nostalgia, in Rossani, è un vento fortissimo, investe ogni cosa, onda che lambisce ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, ombra che si allunga su quanto potrebbe ancora avvenire e invece non accadrà mai. E quella felicità che non può tornare, sepolta sotto la frana del tempo. Tale sentimento si trasforma qui anche in un propellente per i suoi siluri di critica sociale. “Donne seminude che sprecano la femminilità e parlano come la pubblicità .” Frase che lascia trasparire il disagio di essere oggi condannato a vivere in una società dove valori fondanti quali l’educazione civica, il buon gusto, il senso del pudore, la fame di cultura, la correttezza e il garbo nei rapporti interpersonali si sono purtroppo smarriti.
E, quando “sente una musica interiore che nessuno intuisce”, senza volerlo Ottavio ci confessa il bruciante desiderio di quella comprensione profonda che, a noi umani, è spesso negata. Sempre assenza, mancanza, incolmabile vuoto, quindi. Una patina di delusione, una sfiducia latente, un’intima chiusura, un malessere di fondo, un sotterraneo nichilismo, una sete di eterno che, con rammarico, lo portano a concludere: “Amo i luoghi più degli uomini, /(...) /anche se offesi e deturpati.” / “Le pietre durano nel tempo, / gli uomini si sgretolano in cenere.”
Soverato ha la forma di un libro. In realtà è un piccolo scrigno, che contiene collane di pensieri. E spunti per meditare.
In queste pagine Ottavio ci ha spiegato che ci sono sogni temerari e tenaci che, presto o tardi, trovano la forza per approdare alla realtà.
Ci ha insegnato che la tenera determinazione della vita penetra persino nelle più buie crepe della sofferenza e riesce, dopo decenni, ad attutire un po’ il dolore.
Ci ha dimostrato che, per l’uomo dotato di sentimento, c’è comunque una via d’uscita, un nobile traguardo da perseguire. Dentro e fuori di noi. A ogni età.
Ottavio ci ha infine rivelato che i giorni perduti, in determinate circostanze, per pochi miracolosi istanti, talvolta rivivono: un sortilegio che solo l’alchimia della parola poetica rende possibile.