Culture

Tutti a scuola con "L'appello" di Alessandro D’Avenia

di Alessandra Peluso

“Il mondo non lo cambiano le persone geniali, ma le persone libere” si legge tra le pagine del libro di Alessandro D’Avenia: “L’appello” (Mondadori). Un romanzo che insegna a essere liberi e a riconoscere la propria responsabilità.  È una storia che spiazza il lettore e comporta una passione spasmodica quasi nel soffermarsi su ogni singola parola senza trascurarne alcuna: in vero, ogni spasmo come ciascuna storia raccontata dai ragazzi di una classe di liceo e del suo professore, supplente di scienze, provoca un dolore acuto. Già. Lo sosteneva persino Nietzsche e le sue parole sembrano far eco in quelle del professore Omero Romeo: il dolore, la sofferenza sono indispensabili per far scaturire il senso della vita, per riconoscere il proprio.

È un libro che coinvolge tutti i sensi. È una storia di ragione e di cuore, e forse di più ragioni. Non  si può fare a meno del cuore, d’altronde “i grandi pensieri giungono dal cuore” osserva Vauvenargues (scrittore, educatore del ‘700), ma aggiunge Simmel (filosofo, sociologo della modernità): “Dovrebbero anche andare nel cuore”. Ecco la storia raccontata magistralmente da D’Avenia giunge dal cuore, vi affonda e permane nel cuore di chi legge. È così. Non lascia indifferenti. È un esperimento riuscito. Penso. Non solo per il modo di coinvolgere una classe attraverso “l’appello”: dare cioè un nome, un’identità, un ruolo, avvalorati dalla passione e dalla determinazione di un insegnante cieco ma anche per l’abilità e il desiderio profusi nel trasmettere a professori e studenti come potrebbe e dovrebbe essere una scuola: insegnare a vivere (Morin). E lo si fa privilegiando l’ascolto. Al di là delle vicissitudini D’Avenia mira a far comprendere che la scuola non è un luogo dove ci si riempie di informazioni, ci si istruisce, ma si “educa” – aggiungerei – vale a dire si impara a conoscere se stessi, ad amarsi e ad amare la vita. Perciò diventa essenziale la reciprocità nella relazione maestro-allievo: “è prioritaria rispetto ai programmi”, spiega il professor Romeo. Sì. Vero. Ma spesso questa verità sfugge per lasciare il posto a programmi da stilare. Si rincorre una macchina burocratica che non condurrà in alcun luogo.  

E infatti, si legge nel libro di D’Avenia: “La conoscenza che non serve a prendersi cura di sé e del mondo non è conoscenza, ma violenza. Portatemi dove non sono mai stato. Come diceva Einstein: la maggior parte degli insegnanti perde tempo a fare domande che mirano a scoprire ciò che l’alunno non sa, mentre la vera arte del fare domande mira a scoprire ciò che l’alunno sa o è capace di sapere” (p. 132). Il fine che in una scuola i ragazzi dovrebbero raggiungere è  quello di ricercare la verità, la bellezza di stupirsi, il solletichio di sapersi liberi e di avvertire in interiore animo il “bisogno di pensare” (Vito Mancuso).

Fortunatamente in questi ultimi anni molti stanno attuando una rivoluzione che non porta violenza e si serve dei libri, delle parole, del linguaggio, degli esempi da seguire. Un impegno costante avviato da filosofi della Modernità sino alla Contemporaneità dove voci autorevoli si rivolgono a chiunque voglia ascoltare. Un’urgenza: l’umanità ha bisogno di essere educata e perciò, di imparare a riconoscere la propria libertà e responsabilità. La scuola: i maestri, gli allievi. I protagonisti di questa rivoluzione. “Lo so che sembra un paradosso, ma la vita è fondata su paradossi che la ragione non accetta, perché la ragione cerca il controllo e non basta ad abbracciare la vita. Solo il cuore ci riesce” (Diario di un professore cieco, p. 138). D’altronde la vita è contraddizione e  l’individuo è costituto da contraddizioni. È caratterizzato dal “conflitto” (Vittorio Lingiardi). Non resta che prenderne atto e veder anche nel dramma la luce. Così, i protagonisti del romanzo “l’appello” portano “luce”. Basta saperla guardare con occhi nuovi, senza aver paura di essere accecati. Difatti, “la vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce” (Platone).

Nel romanzo la “luce” della vita si configura nell’“amore” e l’Autore si destreggia con inoppugnabile competenza a parlare di “scuola” e di “amore”, giustappunto, di esistenze, di dolore, di fragilità, di forze e, innanzitutto, sollecita ad aprire un dibattito mai chiuso, ma mai affrontato fino in fondo, sul modo di intendere la scuola. Tutt’oggi irrisolto.

È un libro. È un romanzo. È tanto. È il desiderio di porre fine all’“eutanasia culturale del nostro tempo”. “Il sapere serve a vivere meglio o non è sapere” (p. 275). È un insegnamento vitale quello del professore Omero Romeo: “La scienza della vita è l’amore”. È un’espressione che andrebbe scolpita non solo nel cuore e nella mente ma in ogni istituto scolastico. Inoltre, questa storia stra-ordinaria narrata da Alessandro D’Avenia - auspico - possa diventare un film: “Il tuo nome. La tua vita”. Sic et simpliciter. A scuola. Nonché realtà.