Economia

Argentina di nuovo a rischio default. Qual è il male oscuro di Buenos Aires

Luca Spoldi

Sono passati 18 anni da quando, nel 2001, l’Argentina finì sui libri di storia per essere stato se non il primo certamente il più importante paese ad essere finito in default, colpendo centinaia di migliaia di investitori che in tutto il mondo, Italia compresa, avevano sottoscritto i suoi bond, attratti dagli elevati rendimenti promessi.

Ora, nonostante nel frattempo si siano definitivamente chiusi gli ultimi strascichi legali di quelle vicende e nonostante un presidente, Mauricio Macri, acclamato dai mercati e dalla stampa come liberista, che in questi ultimi anni ha richiesto e ottenuto l’aiuto del Fondo monetario internazionale, il paese sembra sull’orlo di un nuovo default, col rischio concreto che il prossimo 27 ottobre Macri debba passare la mano allo sfidante peronista Alberto Fernandez, che ha già vinto le primarie presidenziali in tandem con l’ex presidente Cristina Fernandez de Kirchner.

Come è stato possibile tutto questo? Facciamo un passo indietro: i problemi dell’Argentina nascono da un eccessivo ricorso al debito unito ad una politica fortemente populista. Una miscela esplosiva, quando un paese per finanziarsi deve ricorrere ai mercati internazionali, la cui massa d’urto e rapidità impedisce ogni incertezza o ritardo nell’attuazione di manovre correttive. 

Sotto la precedente presidenza di Cristina Fernandez de Kirchner la spesa pubblica era esplosa per finanziare clientele di ogni sorta, con un terzo degli occupati nel settore pubblico (vi ricorda vagamente qualcosa?), l’inflazione era esplosa (anche se i numeri ufficiali, taroccati ad arte, non lo mostravano appieno), i “diritti acquisiti” erano andati montando come la panna e il deficit di partite correnti aveva assunto proporzioni imbarazzanti.

Per provare a rimediare ai guai del passato Macri aveva seguito la strada “ortodossa” dell’apertura del paese ai mercati, in particolare con la rimozione dei controlli sui capitali. Una mossa importante per un paese come l’Argentina che è un esportatore netto, ma molto pericolosa quando il “liberista spietato” cerca di attuare le riforme strutturali necessarie, ossia un aumento delle tasse e un taglio della spesa pubblica, in modo graduale per cercare di ridurre al minimo i costi sociali. I mercati finanziari, infatti, per loro natura non agiscono in modo graduale ma pressochè simultaneo.

Finchè c’è stata fame di rendimenti in giro per il mondo, i “tango bond”, in dollari, hanno trovato acquirenti fornendo all’Argentina l’afflusso di valuta forte di cui aveva bisogno, quando però la Federal Reserve ha interrotto il suo quantitative easing e poi iniziato ad alzare i tassi, la giostra ha smesso di girare e rifinanziarsi è diventato sempre più costoso. A quel punto Macri ha chiesto al Fmi di Christine Lagarde (prossimo successore di Mario Draghi alla presidenza della Bce) di intervenire come “fornitore di liquidità” al posto dei mercati, ottenendo una linea di credito da 50 miliardi di dollari in cambio della promessa di un’accelerazione delle riforme.

Col senno di poi (che in parte sembra avere lo stesso Fmi, a leggerne alcuni recenti studi sul caso) Macri avrebbe dovuto semmai reintrodurre temporaneamente limiti ai movimenti di capitali, chiedere subito un aiuto al Fmi il quale a sua volta avrebbe dovuto avere pazienza e consentire un approccio graduale alle riforme approfittando dell’ombrello del temporaneo isolamento dell’Argentina dai mercati finanziari. I quali, va ribadito, operano con tempi di reazione infinitamente inferiori a quelli dell’economia reale e sulla base di alternative secche.

Nell’ipotesi di una (probabile) vittoria del ticket presidenziale populista, l’Argentina rischia di tornare ad essere un laboratorio di politiche economiche molto poco pro-crescita e molto poco pro-mercato. In grado forse di dare un temporaneo beneficio agli strati più deboli della popolazione, ma col forte rischio di causare l’ennesimo default nel giro di pochi trimestri. C’è da sperare che le cose possano andare diversamente e che sia il Fondo monetario internazionale sia i paesi che per culturalmente sono maggiormente attratti dall’utilizzo smodato del debito, riescano a capire la lezione a tempo questa volta, evitando di utilizzare approcci in astratto anche corretti ma nell’ordine sbagliato.