Economia
Microchip, si cercano investimenti: task force di Urso in giro per il mondo
L’Italia contribuisce al 3% del mercato europeo dei microchip e nel 2022 ha generato circa 1,6 mld di euro, con il settore auto che assorbire il 40% del totale
INVESTIRE IN MICROELETTRONICA
Che i microchip e la microelettronica in genere fossero un pallino del ministro del made in Italy, Adolfo Urso, era sembrato chiaro fin dai primi giorni del suo insediamento. D’altra parte questa esigenza deriva anche dalla cronica carenza del settore nel nostro paese, anche solo a livello europeo. Ad oggi il nostro Paese può contare su un solo grande player nel settore dei microprocessori: STMicroelectronics (in realtà italo-francese), che ha un centro di produzione ad Agrate Brianza e uno a Catania.
Ci sono anche la piemontese Vishay Semiconductor, che lavora a stretto giro con il settore dell’automotive, l’abruzzese LFoundry – che però nel 2019 è stata acquistata dalla cinese Wuxi Xichen Weixin Semiconductor – e Memc Electronic Materials, che fa capo a una società taiwanese. Le restanti sono piccole realtà. L’Italia contribuisce al 3,3 per cento del mercato europeo dei microchip e nel 2022 ha generato circa 1,6 miliardi di euro, con il settore automobilistico ad assorbire il quaranta per cento del totale.
Urso allora ha voluto, come sostiene oggi in una lunga intervista a La Stampa, correre ai ripari, istituendo una task force apposita inviata in giro per il mondo per attrarre investimenti nel nostro paese. E i primi frutti hanno portato alla decisione di Silicon Box di realizzare un impianto per microprocessori a Novara, con un investimento da 3,2 miliardi di euro.
“Abbiamo intenzione di realizzare pienamente un piano sulla microelettronica che" potrà "configurare investimenti vicini ai 10 miliardi nell'arco dell'anno” ha detto Urso al giornale torinese, affermando che ad oggi gli investimenti sono quasi a 9 miliardi di euro nei primi sei mesi dell’anno, numeri davvero sorprendenti. STMicroelectronics, colosso italo-francese dei semiconduttori, a fine maggio ha annunciato che costruirà un nuovo impianto per la produzione in grandi volumi di carburo di silicio (“SiC”) da 200 mm per dispositivi e moduli di potenza, nonché per attività di test e packaging. Si prevede un investimento totale intorno ai cinque miliardi di euro, con un sostegno finanziario di circa due miliardi di euro da parte dello Stato italiano nel quadro del Chips Act dell’Unione Europea.
Si tratta di progetti che dovrebbero fare del nostro paese uno dei poli di questo settore strategico per l’industria e l’economia italiana ed europea. Anche l’intenzione di riaprire vecchi miniere dismesse va nella direzione di procurarsi le importanti materie prime necessarie alla realizzazione dei preziosi microchip e per le batterie in silicio. Dieci giorni fa il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che mira a mappare le vecchie miniere abbandonate e i nuovi possibili giacimenti di materie prime critiche, e allo stesso tempo a rendere molto più rapide le procedure per aprire uno scavo.
Il decreto legge prevede di intraprendere un programma nazionale di esplorazione, che sarà gestito dal ministero dell’Ambiente. Questo sforzo sarà foraggiato con tre milioni e mezzo di euro, essenziali per aggiornare la carta mineraria nazionale. Si stilerà un elenco delle miniere abbandonate – i cui materiali di risulta oggi potrebbero essere preziosi – ma anche delle aree nelle quali potrebbero nascere delle nuove miniere.
La pandemia da COVID 19, i conflitti internazionali, hanno evidenziato plasticamente la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali. Ecco allora la necessità di localizzare la produzione in Europa, cosa che ridurrebbe la dipendenza da paesi extraeuropei e limiterebbe il rischio di interruzioni nelle forniture a causa di eventi globali. E proprio per rafforzare e finanziare questo sforzo, la Commissione europea ha stanziato 43 miliardi di euro con il Chips act europeo, per portare la produzione europea di chip al 20% di quella globale entro il 2030. E per una volta il nostro paese sembra proprio essersi mosso prima di altri.
Lo scorso 3 novembre, poi è stata inaugurata dai ministri Giancarlo Giorgetti (ministro dell’Economia e delle Finanze), Adolfo Urso (ministro delle Imprese e del Made in Italy) e Anna Maria Bernini (ministra dell’Università e della Ricerca) la fondazione Chips.IT di Pavia, il Centro italiano per il design dei circuiti integrati a semiconduttore. Lo scopo della fondazione di Pavia, che si rivolge quasi esclusivamente agli italiani, è quello di formare i futuri progettisti di circuiti integrati. Ecco allora che in questo bisogna per una volta riconoscere lo sforzo compiuto per creare quell’ecosistema virtuoso a tutti i livelli, con la sinergia tra pubblico e privato per arrivare al risultato comune. L’investimento di Silicon Box a cui potrebbero seguirne altri, dimostra come anche il nostro paese, al di là dei problemi burocratici e legislativi, può diventare attraente per investimenti esteri.
A certificare questo dato è arrivato qualche settimana fa, il report annuale della Kearney Foreign Direct Investment, società americana di consulenza, che si occupa di stilare una classifica, ogni anno, dei mercati mondiali più attrattivi per gli investimenti. Nel rapporto uscito una settimana fa, sulla base di un sondaggio condotto tra i senior executive delle principali aziende mondiali, tra i 25 Paesi più attrattivi per gli investimenti esteri, l’Italia ha occupato l’undicesima posizione. Un risultato questo che sommato ai dati su occupazione e crescita del Pil, dimostrano ancora una volta come un po’ di programmazione e una politica industriale degna di questo nome, siano il miglior antidoto al declino a cui questo paese sembrava ormai irreversibilmente destinato.