Economia
Mes, ma quale Fondo Salva-Stati. Prima serve alle banche tedesche
Il fondo di risoluzione unico, rifinanziabile dall’Esm in caso di crisi, salverebbe Deutsche e Commerz ma non basterebbe in caso di crisi del debito italiano
Un “dibattito senza senso”, per di più ricco di “confusione”, come ha commentato il ministro dell’Economia e finanze Roberto Gualtieri, quello che da qualche giorno si è aperto in Italia sulla riforma dell’Esm. Riforma che per quanto riguarda il nuovo testo del trattato istitutivo del Esm (European stability mechanism, Meccanismo europeo di stabilità) era già stata resa nota lo scorso 14 giugno al termine dell’Eurogruppo senza che nessuno di coloro che ora lanciano allarmi avesse trovato nulla da obiettare.
Il managing director dell'ESM Klaus Regling
Ma cos’è esattamente il Mef e chi ha maggiore interesse a che la sua riforma venga varata senza intoppi? Nato nel 2010 dal riconoscimento da parte dei membri dell’Eurozona della necessità di un meccanismo di stabilità permanente che subentrasse agli allora esistenti European financial stability facility (Efsf) e European financial stabilisation mechanism (Efsm) “nel fornire, dove necessario, assistenza finanziaria agli stati membri della zona euro”, gli interventi del Esm vennero soggetti a “stretta condizionalità” già dal 2011, anche per tener conto del fiscal compact e dell’obiettivo di pervenire a un’unione bancaria e fiscale tra i paesi dell’eurozona.
Infine, nell’estate del 2018, fu stabilito che l’Esm avrebbe fornito un “backstop comune” ossia letteralmente una “rete di protezione comune” al Single resolution fund (Srf, Fondo di risoluzione unico), ordinariamente alimentato dai contributi delle banche dei singoli paesi membri dell’eurozona sulla base di un piano a otto anni e che interviene per finanziare i programmi di risoluzione, ossia quei programmi di ristrutturazione di una banca o Sim da parte di un’autorità di risoluzione nazionale al fine di salvaguardare l’interesse pubblico, “fra cui la prosecuzione delle funzioni essenziali della banca, la stabilità finanziaria e i costi minimi per i contribuenti”.
L’Esm ha dunque la possibilità di intervenire nelle crisi banco-sovrane come fu quella del 2010 in Grecia (ma l’Esm è intervenuto anche nella crisi di Cipro e nel salvataggio del sistema bancario spagnolo) potendo contare ad oggi su un capitale di 705 miliardi di euro di cui 80 miliardi già versati. L’Esm già oggi è il principale emittente di obbligazioni in euro e può dunque “fare leva” ossia concedere finanziamenti alle banche (e stati) in crisi per un multiplo del capitale. Finora il dibattito si è incentrato su chi possa avere bisogno dell’Esm in caso di una nuova crisi del debito, come accadde alla Grecia, ma di fatto l’Esm potendo rifinanziare (per 60 miliardi) l’Srf (che di suo già dispone di un capitale di 60 miliardi) è il “garante di ultima istanza” del sistema bancario europeo.
Rendere l’Esm più flessibile, addossando una parte dei costi delle crisi ai creditori ed evitando così di attingere direttamente alle casse pubbliche dei singoli stati (facendone ricadere il costo solo sui contribuenti), conviene dunque a chi ha banche più esposte al rischio e sposa l’idea che un “bail-in” è preferibile, perché più sostenibile, di un “bail-out”.
Ora, il problema è che il sistema bancario tedesco, nonostante 240 miliardi di euro di aiuti pubblici ottenuti nel corso degli anni, resta molto più “malato” di quello italiano per motivi strutturali. I primi tre gruppi bancari (Deutsche Bank, Commezabank e HypoVereinsBank-Unicredit) raggruppano solo il 20% dei depositi tedeschi, l’80% essendo presso le numerosissime (oltre 1.300) Landesbanken o Sparkassen, fortemente tutelate dalla politica locale, tanto che esse non sono mai finite sotto la lente dell’Eba e dei suoi stress test.
Mentre la redditività degli istituti, anche per via della lunga stagione di tassi vicini a zero voluta dalla Bce di Mario Draghi, supera di poco il 5% a livello di Roe e resta ampiamente al di sotto del costo del capitale. La conseguenza di questa fondamentale distorsione della concorrenza è che Deutsche Bank e Commerzbank negli anni si sono dovute sempre più affidare a fonti di finanziamento alternative, ad esempio facendo leva su derivati e titoli di “livello 3”. Rischiosi.
Quanto realmente valgano questi strumenti resta un mistero: dalle relazioni trimestrali a fine settembre è emerso come Deutsche Bank ne avesse ancora in pancia per 25 miliardi netti, Commerzbank per 8,5 miliardi netti, ma anche un piccolo errore di valutazione su questi contratti può portare a differenze di valore significative. Così, mentre entrambi i colossi bancari tedeschi continuano a tagliare personale e costi (e vedono i rispettivi titoli azionari capitalizzare 13,7 e 6,5 miliardi, una frazione del valore di 10 anni fa) non stupisce che proprio Deutsche Bank abbia deciso di gettare la spugna e uscire dopo 20 anni dalle attività di trading e vendita di azioni, dando vita a una bad bank (chiamata Capital Release Unit) a cui sono stati girati 77 miliardi di asset che si cercherà di vendere “al meglio” ma che intanto hanno comportato l’iscrizione a bilancio di una perdita straordinaria di oltre 3 miliardi di euro.
Ricapitolando: l’Esm, di cui la Germania è il principale finanziatore con una quota del 26,9% (21,7 miliardi di capitale versato), seguita dalla Francia, che contribuisce per il 20,4% (ossia ha finora versato 16,3 miliardi) e dall’Italia, che contribuisce per il 17,8% (14,3 miliardi versati), ha sempre fornito prestiti in modo “condizionato”, adottando la logica del “bail-in” che richiede di addossare una parte dei costi di una crisi bancaria (ma anche sovrana) ai creditori, ossia ai sottoscrittori privati delle obbligazioni emesse dall’istituto (o dei titoli di stato sovrani) in crisi.
La Germania aborrisce i salvataggi pubblici ed è pronta ad addossare ai bondholder di Deutsche Bank e Commerzbank il rischio di eventuali future crisi. L’Italia, che dopo anni di continue pulizie di bilancio appare avere banche più sane, non dovrebbe avere questo problema. Ma allora perché tutte queste polemiche? Perché viste non tanto le dimensioni assolute del debito pubblico italiano (sopra i 2.400 miliardi, ma anche quelli francese e tedesco sono ampiamente sopra quota 2mila miliardi), quanto il suo peso in rapporto al Pil (l’Italia è sopra il 133%, la Francia poco sopra il 99%, la Germania sotto il 59%), potrebbe finire “sotto il giogo dei mercati” in occasioni di future crisi.
Soprattutto se le banche italiane fossero spinte da una riforma dell’Esm che potrebbe rivelarsi ex post “pro-ciclica” a non rinnovare l’ingente stock di titoli di stato italiani in portafoglio, finendo col forzare una ristrutturazione del debito pubblico tricolore (che l’Esm non avrebbe comunque risorse a sufficienza per evitare, neanche volendo) che tutti temono ma di cui nessuno vuole parlare, né in Italia né in Germania.