Economia
Tim anche senza rete può volare e fare gola a tanti
Dopo lo scorporo e cessione della rete Tim potrebbe divenire un gruppo multimediale puro. La valutazione si avvicinerebbe a quella di Orange, con cui...
Sulla carta sono tutti, o quasi d’accordo: scorporare la rete di accesso di Telecom Italia e conferirla a un nuovo soggetto in cui confluirebbe anche la rete di Open Fiber potrebbe fare bene sia agli acquirenti (sostanzialmente lo stato tramite Cassa depositi e prestiti), che metterebbero le mani su un asset “strategico” per lo sviluppo del paese, sia ai venditori, che potrebbero alleggerire una parte dell’ancora elevato debito che grava sull’ex monopolista telefonico italiano.
Ovvia: ci sarebbero dei caveat di cui tenere conto come la contrarietà del principale azionista di Tim, Vivendi (socio al 23,9%), la possibilità che il fondo Elliott (con poco meno del 9% di capitale) una volta portata a casa lo spin-off col quale ritiene si possa “esprimere” un valore finora inespresso e pari a 7 miliardi (da retrocedere in parte ai soci, si capisce) saluti tutti e vada in cerca di nuovi business, la difficoltà di attribuire una valutazione puntuale alla rete di Tim (Banca Imi in un report di alcuni mesi or sono ricordava come essa dipenderà da tre fattori: quanto personale sarà trasferito alla Newco assieme alla rete, quanto debito, appunto, e quale sarà il perimetro del business (solo quello retail o anche quello wholesale).
Fattori a cui va ad aggiungersi anche il discorso relativo alla remunerazione dell’accesso alla rete stessa (con Tim che da mesi chiede/spera si passi dall’attuale modello basato sui costi ad un modello basato sulla Rab, o “Regulatory asset base”, cioè sostanzialmente sul costo storico rivalutato), su cui l’Agcom potrebbe dire qualcosa di più entro fine anno.
Ammesso e non concesso che alla fine la valutazione sia in linea coi numeri finora circolati (tra 11 e 13 miliardi di euro, contro una capitalizzazione di mercato nel frattempo scesa a 10,5 miliardi) e che il ricavato della cessione, che non è detto sarebbe totale (ossia Tim potrebbe rimanere socia nella Newco) fosse in larga parte utilizzato vuoi per abbattere il debito (da 26,1 miliardi netti a fine settembre) vuoi per remunerare i soci (magari con un maxi dividendo straordinario), quanto varrebbe ciò che rimarrebbe in Tim e soprattutto che prospettive avrebbe la società?
Tim si trasformerebbe in un player multimediale puro, distributore di servizi attraverso una rete non più di sua proprietà esclusiva, mentre continuerebbe a detenere una presenza importante in Brasile. Visto che a livello di Ebitad (8,7 milioni quello normalizzato a fine 2017) Tim rinuncerebbe a circa 1,2-1,5 miliardi e visto che il multiplo di borsa di holding come Tim è di circa 6 volte l’Ebitda, si potrebbe arrivare a valutare la “nuova Tim” attorno a 42-43 miliardi (tra equity e debito).
Si tratterebbe di una valutazione importante, dato che potrebbe imprimere una buon accelerazione al titolo in borsa (titolo che del resto a 0,53 euro vale ormai una frazione non solo rispetto al massimo storico equivalente a 5,71 euro del marzo 2000, ma anche agli 1,17 euro del novembre 2015 o agli oltre 2 euro a cui oscillava poco prima della crisi del 2008), ma non tale da renderla al riparo da eventuali mire “indiscrete” come quelle di Orange (l’ex France Telecom), 40 miliardi di capitalizzazione, o di Deutsche Telekom (72 miliardi di capitalizzazione), per non dire di colossi come Verizon Communication (quasi 250 miliardi di dollari di capitalizzazione).
In alternativa sembra riprendere quota l’ipotesi, circolata così tante volte in quest’ultimo quindicennio che se n’è perso il conto, di un matrimonio con Mediaset. Entrambe le società hanno visto svanire la gran parte del proprio valore in borsa, troppo concentrate su un mercato sempre più maturo e competitivo come quello italiano su cui grava una fondamentale debolezza della domanda interna. Piccole per poter sperare di resistere ad eventuali “assalti” dall’estero, le due società potrebbero trasformarsi in una media company pura e provare a fare proprio il progetto di trasformarsi in una “Netflix del Sud Europa” che tanto caro è stato (e ancora è) a Vivendi.
C’è solo da capire se potranno farlo riesumando un’alleanza a tre proprio con Vivendi (ma le difficoltà da superare non sarebbero lievi visti gli scontri avuti tra Bollorè e Berlusconi, oltre che tra Vivendi e il fondo Elliot) o se proveranno una soluzione “autarchica” che potrebbe incontrare un maggiore favore politico ma non è detto si riveli la migliore né in termini di qualità e quantità degli investimenti in innovazione che potrebbero essere messi in campo né come capacità di non ledere la concorrenza. Così l’ipotesi che con Orange, nonostante i dinieghi (“siamo attivi in otto mercati in Europa e l’Italia non è un paese al quale stiamo guardando” si sono affrettati a precisare i francesi), possa scattare un’integrazione “tra pari” o quasi, non sembra essere così inverosimile, anzi.