Economia
Transizione green e industria: il piano 5.0 è già un flop. Ora Urso punta sulla semplificazione
Le procedure richieste per implementare l'industria 5.0 sono troppe complesse: il piano per la transizione dovrà subire dei cambiamenti
Il piano transizione 5.0 tra annunci, incertezze e un’occasione persa per l'industria italiana
La via di Damasco, per Adolfo Urso, ha coinciso con via Vittorio Veneto. Nella sede del suo ministero (quello delle imprese e del Made in Italy), Palazzo Piacentini, ha incontrato il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, e ha deciso che cambierà il “Piano Transizione 5.0”. Ha scoperto che le procedure richieste sono troppo complesse, che il problema del drammatico sottoutilizzo delle risorse a disposizione (poco più di 70 milioni di crediti d’imposta prenotati su un plafond di 6,3 miliardi di euro: un mediocre 1,1%) rischia di far fallire un’occasione colossale, rinnovare il panorama dell’industria nazionale attraverso un ricco pacchetto di incentivi dedicato agli investimenti in digitalizzazione, transizione green e formazione del personale.
Non poteva accorgersene prima? O almeno convocare prima il vertice della rappresentanza degli industriali per farsi dire i problemi di una opportunità che non riesce a essere colta da chi ne avrebbe bisogno come il pane.
Industria 4.0 ha funzionato bene. Era lecito auspicare che la nuova edizione del piano facesse tesoro del buono prodotto per fare meglio. Così non è stato. E spesso si è preferito accusare la burocrazia, come se le procedure complesse richieste dal piano Industria 5.0 fossero state formulate dai burocrati e non dal legislatore, quindi dalla politica.
Innanzitutto, si tratta di uno strumento finanziato con fondi del PNRR che vanno spesi entro la fine del 2025. Nella peggiore delle ipotesi, si può chiedere uno slittamento al 2026, l’anno in cui termina il programma europeo, ma l’intenzione più volte dichiarata dal ministro Urso sarebbe quella di aggiungere in questo orizzonte di tempo altri fondi, anziché spalmarli su più anni. Ma finché non si riescono a spendere quelli disponibili è difficile immaginare un futuro migliore. Il contesto esterno suggerirebbe un’accelerazione nel sostegno alle imprese e in particolare a quelle manifatturiere, visto il calo continuo negli ultimi due anni della produzione industriale, che è in buona parte dietro alla crescita modesta del Pil.
L’annuncio del ministro, dopo il vertice con Confindustria, non avrà altro effetto che frenare ulteriormente l’accesso a questi fondi, visto che qualcosa cambierà ancora. Ma che cosa ci sarà di nuovo? E quando? La politica degli annunci si scontra con l’incapacità di disegnare processi certi per le imprese che hanno bisogno di investire e di cogliere le opportunità offerte dagli incentivi, almeno sulla carta.
Il ministero delle Imprese e del made in Italy ora punta a semplificare almeno in parte la strada con una nuova serie di Faq che si aggiungono a quelle pubblicate nelle scorse settimane. Insomma, si punta sulle Faq preventive, in assenza di cambiamenti normativi che arriveranno, senza conoscerli, senza saperne nulla. Si governa con le Faq?
I mutamenti normativi verranno veicolati nella prossima Legge di Bilancio? E sarà ancora la burocrazia a essere accusata dell’ennesimo rinvio? Perché manca il coraggio di ammettere che abbiamo una classe dirigente politica che spesso si rivela inadeguata alle sfide che incombono? Il problema non è il ministro Urso, forse, ma la classe politica che lo accompagna, lo consiglia, lo induce a costruire percorsi che si rivelano inadeguati, tardivi, inefficaci. Ma poi a capo del ministero c’è sempre un ministro.
Secondo i rumor, si starebbe immaginando di aumentare le aliquote, a esempio alzando fino al 50% quella prevista per il primo scaglione di investimento, che al momento attuale arriva fino a 2,5 milioni di investimento ma che sempre secondo i rumors di questi giorni potrebbe essere raddoppiata a 5 milioni di euro. Una duplice mossa che favorirebbe soprattutto le imprese di taglia medio-piccola ma che ovviamente avrebbe impatti più limitati per quelle più piccole, che rappresentano oltre il 90% del tessuto produttivo nazionale, o per le imprese di dimensione maggiore.
Ma il mondo delle imprese non ha bisogno di rumor, né di Faq preventive, si augura di poter contare su una classe dirigente che ascolta prima di deliberare – “conoscere per deliberare” secondo il motto di Luigi Einaudi – e quando decide lo fa in modo certo e immodificabile. Esattamente il contrario di quanto accade oggi. Ma non è colpa della burocrazia, è il primato della politica, sia quando è buona, sia quando non lo è.