Esteri
Coronavirus, Amighini (ISPI): "La Cina non riparte da sola. E il suo soft power non aumenterà"
Intervista ad Alessia Amighini, co-head dell'Asia Centre dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)
Alessia Amighini, da quando i contagi interni sono arrivati a zero (almeno secondo i dati ufficiali) si dice che la Cina è ripartita. E' davvero così? E' parzialmente vero. Sia dai dati a nostra disposizione che dalle testimonianze che mi arrivano dal quartiere finanziario di Pechino e da Shanghai, una ripartenza c'è stata ma non è ancora completa. Siamo ancora a poco oltre la metà della produzione. E comunque sta emergendo un tema che ora Pechino si ritrova improvvisamente a dover affrontare. Per alcuni settori la domanda interna non c'è o è molto scarsa. Certo, il chimico e i prodotti del medicali sono ripartiti alla grande anche perché rappresentano un business importante per la Cina in questo frangente. Ma finché riparte, o prova a ripartire, solo la Cina e il resto del mondo è fermo la situazione non si risolve nemmeno per Pechino.
La pandemia può dare una ulteriore spinta nella direzione dell'autarchia produttiva alla base del piano Made in China 2025?
Penso proprio di sì, come ho scritto in questi giorni (qui l'ultima analisi di Alessia Amighini pubblicata sul sito ISPI, ndr). Già da anni la Cina limita le importazioni dal resto dell'Asia mentre aumenta l'export di beni intermedi. L'intenzione è svincolarsi dalle filiere occidentali e ridurre o azzerare la dipendenza dalla tecnologia estera. La pandemia potrebbe accelerare il processo.
Come va interpretata la "nuova Via della Seta sanitaria"? In Italia è nata una discussione interna al governo sugli aiuti in arrivo dalla Cina. Si tratta di un'operazione strategica?
La Cina è un centro importante di produzione di materiale sanitario, a partire dalle mascherine che molti altri avevano smesso di produrre. Questo ha dato alle mascherine non tanto un valore di mercato (al contrario dei respiratori polmonari, che costano molto) quanto un valore politico che Pechino sta cercando di mettere a frutto. Negli scorsi giorni, per esempio, si è messo in evidenza che le trade war di Donald Trump ha conseguenze proprio sull'import di materiale sanitario necessario a contenere l'emergenza Covid-19. Ma le mascherine non arrivano solo dalla Cina. Se ci fermiamo in Italia, è arrivato materiale sanitario da paesi di un po' tutto il mondo, dalla Francia alla Germania, dal Brasile agli Stati Uniti. L'operazione strategica di Pechino, che è quella di presentarsi come "salvatore", funziona nel momento in cui trova una controparte accomodante. Come è accaduto in Italia, dove si è dato ampio risalto agli aiuti in arrivo dalla Cina e un po' meno a quelli in arrivo da altri paesi. E sottolineo che l'adesione alla Belt and Road non ha nulla a che fare con l'arrivo o meno degli aiuti. Detto questo, la Cina fa quello che deve fare, sia sul lato economico sia sul lato politico. E' da questa parte che la reazione è discutibile.
Come va interpretata la telefonata fra Trump e Xi Jinping?
La telefonata di Trump è un gesto importante, anche se non cambierà nulla nel concreto. Il presidente degli Stati Uniti ha ripetuto più volte che chiederà un "danno politico" alla Cina per la pandemia. Il contatto tra i due leader dà comunque il senso della gravità della situazione politica, non solo di quella sanitaria. E fa capire anche il grado di responsabilità politico di un paese, con Trump che ha deciso di comportarsi in questo frangente da presidente di una potenza responsabile. Il che significa prendere in mano la situazione e metterci la faccia, non predicare lo zero politico.
C'è qualche movimento interno al Partito Comunista Cinese? Negli scorsi giorni si sono viste linee diverse sulla teoria del complotto relativa alla diffusione del virus da parte di militari statunitensi.
Mi pare evidente che di discussioni interne al partito ce ne siano eccome. A parte i leader dell'Hubei che sono saltati e salteranno, anche a Pechino si sono resi conto che la pandemia rischia di rovinargli la reputazione. Per quanto riguarda la teoria del complotto, credo che quando hanno capito che la cosa non funziona, perché nessuno ci crede nemmeno in Cina, l'hanno abbandonata.
Il coronavirus non può dare un'opportunità alla Cina per aumentare il proprio soft power su scala internazionale?
Non credo proprio. Anzi, la nascita di questa pandemia dimostra come la prima preoccupazione di Pechino sia sempre e comunque la reputazione del partito. Prima a livello interno, poi a livello esterno. La narrazione della Cina "salvatrice degli amici" non penso possa funzionare.
E' possibile adottare in Italia un "modello cinese" o un "modello coreano" come strategia di contenimento dell'epidemia?
Credo sia impossibile replicarli qui, sia dal punto di vista informatico sia dal punto di vista culturale. E noi siamo molto più imbrigliati di loro. Più che altro per un problema giuridico e per il diritto alla privacy. Si parla tanto di queste fantomatiche app, ma il problema è che l'app da sola non serve a niente, ci vuole tutto un sistema a sorreggerla e a farla funzionare.
Come si può conciliare la necessità di contenimento dell'emergenza sanitaria con quella di contenimento dell'emergenza economica in arrivo?
Domanda a cui è difficilissimo rispondere, anche perché non esiste una terza via per rispondere all'emergenza sanitaria. O si fa come in Cina o si fa come in Corea del Sud. O chiudi tutto o lasci tutti liberi chiendogli di diventare igienisti. Il problema è che quanto fatto in Cina non è mutuabile da nessun altro neanche volendo, quando fatto in Corea del Sud ha bisogno di una struttura mentale e sociale che noi non possiamo avere. Noi abbiamo fatto un po' dell'uno e un po' dell'altro, una combinazione non lineare che purtroppo non può funzionare.