Esteri

Joe Biden e Xi Jinping, se due debolezze portano (per ora) un po' di stabilità

di Lorenzo Lamperti

Dal summit Usa-Cina qualche speranza per un mondo afflitto da guerre. Soluzione difficile per le crisi in corso, ma s'allontana l'apertura di altri fronti

Usa e Cina allontano lo scontro e avviano il (parziale) disgelo

Due superpotenze coi piedi parzialmente d'argilla hanno deciso di camminare a passo meno spedito verso il confronto diretto. Dopo mesi di corteggiamenti incrociati e segnali di disponibilità al dialogo, il summit di San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping non ha prodotto grandi accordi o svolte clamorose alla traiettoria generale di medio-lungo termine di Stati Uniti e Cina. Ma ha quantomeno fatto sì che le due principali potenze globali abbiano iniziato a pigiare il freno di una rivalità che secondo qualcuno rischiava di trascinarle in un circolo vizioso che rischiava potenzialmente di trasformare il confronto in conflitto.

Il celeberrimo paradosso della trappola di Tucidide, secondo cui “quando una potenza emergente tenta di spodestare la potenza egemonica, il confronto sfocia in un conflitto militare”, può per ora aspettare. Sia Biden sia Xi hanno mostrato disponibilità al dialogo. E, soprattutto, la necessità al dialogo. Per ragioni diverse. Gli Usa sono quelli che forse hanno la maggiore urgenza. Sono già coinvolti nell'assistenza a Ucraina e Israele per i conflitti in Europa orientale e Medio Oriente. Non possono permettersi l'apertura di un terzo fronte in Asia-Pacifico, che è peraltro il cuore degli interessi strategici americani.

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Non solo. Biden ha anche bisogno di mostrare qualche risultato in una politica estera che sin qui gli ha riservato quasi solo delusioni. I repubblicani lo criticano per la debolezza, sostenendo che non sia in grado di trovare accordi con nessuno, né di impedire azioni aggressive dei paesi rivali. Con la campagna elettorale non troppo lontana all'orizzonte, Biden ha bisogno di mostrare di saper gestire il rapporto con la Cina.

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Per Xi, invece, la priorità attuale è quella economica. La Cina ha da poco registrato il suo primo deficit trimestrale di investimenti diretti esteri (IDE), sottolineando la pressione del deflusso di capitali da parte dei governi occidentali. Secondo una recente analisi dei dati cinesi, per sei trimestri consecutivi fino alla fine di settembre le imprese straniere hanno sottratto alla Cina oltre 160 miliardi di dollari di utili totali.

Altro che disaccoppiamento: Xi coi grandi imprenditori americani segnale anche per l'Europa

Entrambi avevano dunque bisogno di mandare segnali di fiducia e stabilità ai rispettivi uditori, interno e internazionale. Emblematica in tal senso la cena business a cui Xi ha partecipato insieme a decine di grandi imprenditori americani. Tra gli altri, presenti Elon Musk e Tim Cook, vale a dire il gotha dell'innovazione tecnologica made in Usa. Proprio quella tecnologia su cui la Casa Bianca ha iniziato da ormai alcuni anni a costruire qualche muro giustificato dai timori sulla sicurezza nazionale e a cui Pechino ha risposto aumentando i giri sul perseguimento dell'autosufficienza tecnologica.

Gli applausi degli amministratori delegati dei colossi americani al discorso di Xi, così come il tono davvero amichevole intravisto dagli scambi a favore di telecamere tra il leader cinese e Biden, restituiscono un'immagine quantomai lontana dagli spettri di una nuova guerra fredda. L'Europa, così come diverse altre parti del mondo, osserva e presumibilmente tira un sospiro di sollievo. Dopo aver rotto i rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina, nessuno tra Bruxelles, Parigi, Berlino e Roma vuole vedersi costretto a recidere il cordone commerciale col mercato cinese. La distensione commerciale Usa-Cina garantisce spazi di manovra forse insperati fino a qualche tempo fa. 

L'impatto del disgelo, o meglio stabilizzazione del disaccordo visto che le tensioni strategiche restano tutte irrisolte, difficilmente favorirà la soluzione delle crisi in corso. Quantomeno non direttamente. Ma la speranza è che Biden e Xi esercitino la rispettiva influenza sugli attori principali (o possibili attori) dei conflitti in corso: Ucraina, Russia, Israele e Iran. Il ritorno al dialogo e alle comunicazioni miitari tra Washington e Pechino può peraltro riuscire a scongiurare l'apertura di nuovi fronti, a partire dalla penisola coreana (su cui Xi ha chiesto di ascoltare anche le "legittime preoccupazioni di sicurezza" della Corea del Nord), Stretto di Taiwan e Pacifico.

Attenzione, non significa che i problemi scompariranno, anzi. A partire da Taiwan, su cui Xi ha avanzato richieste più specifiche del passato: gli Stati Uniti dovrebbero smettere di armare Taiwan e sostenere la "riunificazione pacifica" della Cina. Dando poi la garanzia che non ci sono piani militari in preparazione per i prossimi anni. Ma dalla Casa Bianca fanno sapere che Biden ha mantenuto il punto: "Su Taiwan, il presidente Biden ha sottolineato che la nostra politica di una sola Cina non è cambiata ed è stata coerente attraverso i decenni e le amministrazioni. Ha ribadito che gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo da entrambe le parti, che ci aspettiamo che le differenze tra le due sponde dello Stretto siano risolte con mezzi pacifici e che il mondo ha interesse alla pace e alla stabilità nello Stretto di Taiwan. Ha chiesto di limitare l'uso di attività militari da parte della Repubblica Popolare Cinese all'interno e intorno allo Stretto di Taiwan".

Insomma, se Xi vuole che Biden consideri Taiwan una "questione interna", Biden continua a internazionalizzarla. Come detto nei giorni scorsi Evan Medeiros, ex alto funzionario della sicurezza nazionale nell'amministrazione Obama, secondo molti il summit di San Francisco segna "un riscaldamento ciclico in mezzo a un deterioramento strutturale delle relazioni". Ma, vista la tendenza generale, già una promessa di imminente stabilità non è certo poco.