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Esteri
Siria-Israele, credere al peggio
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I fatti che si verificano periodicamente non sono notizia e dunque i giornali non ne parlano più. E tuttavia essi potrebbe lo stesso essere significativi.

La guerra arabo-israeliana del 1967 fu vissuta dagli attaccanti come un episodio. Erano stati sconfitti in Sei Giorni, ma pensavano di rifarsi, se non in altri sei, in sessanta. Gli stessi palestinesi che, dinanzi all’avanzata israeliana, avevano lasciato le loro case, l’avevano fatto seguendo la promessa araba che “presto” vi sarebbero tornati da vincitori. Ma sappiamo come sono andate le cose. La vera rivincita fu tentata sei anni dopo (Guerra dello Yom Kippur) e gli attaccanti, malgrado l’effetto sorpresa e qualche iniziale successo, non soltanto non riuscirono a vincere, ma presto, soprattutto gli egiziani, si accorsero che, se non avessero accettato il pareggio, avrebbero malamente perduto. C’era la task force israeliana di Ariel Sharon in vista del Cairo e un’intera armata egiziana che, tagliata fuori dai collegamenti con la madrepatria, rischiava di morire di fame e di sete nel Sinai. E poi?

Poi l’Egitto si rese conto che, dopo tutto, aveva più interesse alla pace che alla guerra con Israele. In questo campo brillò un grand’uomo troppo facilmente dimenticato, Anwar al-Sadat. E il resto degli arabi capì che di guerra non si sarebbe più potuto parlare, senza l’Egitto. Così, dal 1967, è passato mezzo secolo e le frontiere provvisorie di metà giugno di quell’anno sono ancora quelle vigenti.

Ora i giornali riportano distrattamente la notizia di frequenti attacchi aerei e missilistici israeliani sul territorio siriano, senza darvi importanza e senza spiegarne il significato. Il primo motivo è che gli attacchi si ripetono, e il secondo che i siriani non sembrano lamentarsene molto. Infine gli israeliani sono così decisi a proseguirli, che cercare di frenarli con le parole appare inutile. E tuttavia val la pena di vedere la cosa un po’ più da vicino.

La Siria non protesta gran che contro gli israeliani – la cui attività, tecnicamente, costituisce un casus belli – perché, come Totò in una famosa scenetta, potrebbe sempre chiedere: “E io sono forse Pasquale?”. Gli israeliani infatti non attaccano i siriani, con i quali hanno avuto accettabili rapporti di vicinato per oltre quarant’anni, ma gli iraniani che cercano di stabilire basi militari sul territorio siriano. Un fatto interessante perché, per una volta, le cose vanno diversamente dal solito.

La guerra è tremenda. Tutti quelli che non ne hanno esperienza sono pregati di crederci sulla parola. Per questa ragione, e per la sostanziale imprevedibilità del risultato, tutti i governanti sani di mente combattono soltanto quando non possono farne a meno. Cioè quando sono concretamente attaccati. La Francia e il Regno Unito, che tanto caro avevano pagato la vittoria nella Prima Guerra Mondiale, erano talmente risolute a non far mai più guerra che non si prepararono a sostenerne altre, eventualmente. Il risultato fu che nel 1940 la Francia fu invasa e l’Inghilterra si salvò soltanto per l’esistenza della Manica.

Ma i grandi Paesi sono immortali. Possono perdere disastrosamente una guerra, come la Germania, e qualche decennio dopo essere di nuovo forti e indipendenti. Invece Israele deve combattere in un cortile chiuso. O vince o è perduto. La fuga non è prevista e la sopravvivenza neppure. Che i suoi nemici siano spietati, che possano volere non la sottomissione, ma lo sterminio di tutti i suoi cittadini, l’ha già vissuto. Con i pogrom, con la battaglia del ghetto di Varsavia, e soprattutto con la Shoah. E così, sapendo che cosa devono aspettarsi, gli israeliani sono realisti. Il diritto internazionale può dire ciò che vuole ma, se gli iraniani pongono le basi per sferrare dalla Siria l’attacco per l’annientamento di Israele, l’unica risposta seria è distruggere quelle basi prima che si sia dichiarata la guerra e persino sul territorio di un Paese “terzo”. Del resto, Gerusalemme sa benissimo che la Siria tollera quelle basi perché non può dire di no a Tehran che tanto efficacemente l’ha aiutata a riconquistare il suo territorio.

Ecco la lezione di questi avvenimenti. L’Europa ha passato decenni a deprecare la miopia dello Spirito di Monaco, quel pacifismo che nel 1938 spinse a prendere stupidamente sul serio le promesse di Hitler. Israele invece reagisce razionalmente. Se una guerra si può evitare, che si eviti. Se c’è il serio rischio di doverla combattere, meglio sparare il primo colpo e distruggere a terra l’intera aviazione egiziana, come nel 1967. La famosa “dichiarazione di guerra” è passata di moda, dopo Pearl Harbour.

giannipardo1@gmail.com

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