Esteri
Sudan, la democrazia dorata in crisi. Usa e Russia ci mettono lo zampino
I retroscena sul Paese al centro del conflitto. "Le tensioni tra Russia e Usa potrebbero estremizzarlo". Parla l'esperto dell'area Marco Valentini
Gli stakeholder che si contendono le ricchezze del Sudan
Ci sono tre entità di potere che si disputano il Sudan e le sue ricche miniere d’oro (e altri depositi minerali): i RSF, l’esercito regolare e il governo civile. Gli RSF, ex Janjaweed, sono una forza di cavalleria leggera, simile all’Isis. Si riconoscono per i pickup, le armi automatiche leggere a cui si aggiungono rpg e mitragliatori pesanti, di solito montati sui camion. Queste sono ottime unità contro i civili e la fanteria semplice ma inefficaci contro un esercito strutturato con corazzati e aviazione. Gli RSF combattono con uno stile di guerriglia che ben si presta al contesto di guerra asimmetrica tipica degli scontri urbani.
L’esercito regolare è il bambino d’oro del Sudan. Al Bashir lo ha coccolato per anni: case più belle, ricchi stipendi, mezzi leggeri e pesanti moderni (si diciamo di seconda mano, ma tenuti bene). È il potere militare più forte che, grazie a marina e aeronautica può imporre il potere mettendo a capo dello stato un loro generale. Il terzo potere è quello più “accettato” dall’Occidente, si tratta dell’amministrazione e del potere politico civile. Al Bashir lo rappresentava pur tenendo da conto prioritariamente l’esercito. Poi, con la fine di Al Bashir i “civili” hanno cercato di instaurare un governo pro-Occidente ma con scarsi risultati.
Economicamente parlando i governi precedenti hanno strutturato il Sudan su una solida base di entrate, generate da materie prime adatte all’esportazioni, soprattuto petrolio. Questi proventi permisero investimenti importanti, tra questi la costruzione di dighe e la stesura di una rete stradale moderna. I campi petroliferi principali erano al sud, dove la capitale Khartoum (a maggioranza islamica) aveva uno scarso potere decisionale su una maggioranza di elites locali cristiane.
Quando nel 2011 il Sud Sudan secesse il resto del paese crollò. Nel 2010 le esportazioni di petrolio valevano poco meno di 10 miliardi di dollari mentre dopo la secessione, nel 2015, i profitti corrispondevano ad appena 600 milioni di dollari. Già dal 2005, come riporta Raphaëlle Chevrillon-Guibert, il Sudan cercava di diversificare l’economia e un aiuto venne dal settore minerario. Così la Nazione, menomata del sud, ha investito in prospezioni e ricerche, offrendo permessi ad aziende estrattive straniere. Il Sudan ha depositi interessanti di manganese, uranio e cromo ma è l’oro che ha fatto svoltare le sorti della nazione, infatti il sogno di al-Bashir era di creare un nuovo stato che si sarebbe mantenuto con i proventi dell’estrazione aurifera.