Esteri
Taiwan 2020: com'è nata la vittoria di Tsai. Le sfide per il futuro di Taipei
La conferma della presidente DPP è una vittoria personale e una scelta identitaria. Sempre più difficile il dialogo con Pechino. Anche l'Italia guarda a Taipei
TAIPEI - C'è qualcosa di più, molto di più, di candidata "pro indipendenza" (o "anti Pechino") e candidato "pro Pechino" (o "anti indipendenza") nelle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan che si sono svolte l'11 gennaio 2020. Ci sono innanzitutto oltre 14 milioni di elettori (il 74,9 per cento) che sono andati a votare tornando nella propria città di origine, viaggiando all'interno dell'isola (anzi, delle 166 isole che compongono il suo territorio) oppure tornando dall'estero. C'è una vincitrice, Tsai Ing-wen, che piace ai taiwanesi molto più che il suo partito, il Democratic Progressive Party (DPP). C'è uno sconfitto, Han Kuo-yu, forse non il migliore candidato che potesse trovare il Kuomintang (KMT). E poi, sì, c'è la Repubblica Popolare Cinese, che come sempre ha giocato un ruolo importante nel dibattito politico di Taiwan. Ma le elezioni non erano un referendum su Pechino. Rappresentavano semmai una scelta interna a Formosa tra Taiwan e Repubblica di Cina. Non si tratta di semplice toponomastica, ma di due narrazioni, due identità, diverse tra loro, tradizionalmente rappresentate nella politica locale dal colore verde (da cui il cosiddetto schieramento green di cui il DPP è il partito maggioritario) per le forze che sostengono la "taiwanesità" pura e dal colore blu (da cui lo schieramento blue capitanato dal KMT) per le forze che difendono la "cinesità".
PERCHE' HA VINTO TSAI E PERCHE' HA PERSO HAN
Un anno fa sembrava impossibile poter pronosticare la vittoria di Tsai. In questi 12 mesi invece una concatenazione di fattori esterni e decisioni interne hanno portato la presidente a ottenere la conferma con il record storico per numero assoluto di voti, oltre 8 milioni e 100 mila, superando quello precedente di Ma Ying-jeou (KMT) nel 2008. I primi due anni del suo mandato, nonostante la schiacciante maggioranza ottenuta nello Yuan legislativo (uno dei cinque rami del governo che ha funzioni simili al nostro parlamento) con 68 seggi su 113, erano stati piuttosto deludenti. Le riforme annunciate non erano arrivate e l'economia languiva, anche a causa della rottura del dialogo con Pechino, ovviamente il principale partner commerciale di Taipei. La rottura è motivata dal fatto che il DPP si è sempre rifiutato di riconoscere il celeberrimo "consenso del 1992", che stabiliva l'esistenza di una "sola Cina". Per questo dalle parti di Pechino preferiscono il KMT, che riconosce il "consenso del 1992" pur sostenendo internamente (secondo la formula delle "diverse interpretazioni") che con esso le due parti riconoscevano che esiste una sola Cina ma senza stabilire quale sia tra la Repubblica Popolare e la Repubblica di Cina.
Rallentamento dell'economia più percezione di insicurezza, uguale sconfitta elettorale. Quella che è avvenuta al voto locale del 2018 per il DPP, ko praticamente ovunque, persino nel feudo storico di Kaohsiung, importante città portuale del sud dell'isola. E' da qui che emerge la figura di Han Kuo-yu, che espugna la cittadella "green" con una retorica fortemente populista basata sulla promessa di un futuro più ricco e di bandiere della Repubblica di Cina da piantare su tutte le montagne più alte di Formosa. Tsai si dimette da presidente del DPP, e la sua candidatura alle elezioni del 2020 sembra tramontare.
Poi succede qualcosa. Il 2 gennaio 2019 Xi Jinping fa un discorso molto duro su Taiwan, nel quale parla di "riunificazione inevitabile" e non esclude l'utilizzo della forza. Tsai sfrutta subito l'occasione e risponde con fermezza. A questo punto la presidente, e il suo partito, capiscono che per vincere le presidenziali dell'anno dopo devono utilizzare il tema della sovranità e dell'identità. Un assist gli arriva dallo stesso Han, che a febbraio si reca a Hong Kong dove incontra Wang Zhimin, l'allora direttore Liaison Office di Pechino. Non sarà l'unico aiuto dal campo rivale.
A maggio i sondaggi danno comunque Tsai in grandissimo ritardo su Han, che ancora doveva vincere le primarie del KMT, il quale è in vantaggio di oltre 17 punti. Il KMT ha già impostato la linea della campagna elettorale, insistendo sui temi economici. Una strategia che per ora gli aveva portato grandi risultati, grazie anche all'accusa di inesperienza nei confronti del DPP. Ma tra fine maggio e inizio giugno esplode la crisi di Hong Kong. Il modello "un paese, due sistemi", in funzione nell'ex colonia britannica, è quello che Pechino vorrebbe in futuro applicare anche a Taipei. Le vicende di Hong Kong abbassano ancora di più, la popolarità di questo modello presso i taiwanesi, che secondo i sondaggi lo rifiutano praticamente in massa.
In realtà dicono di rifiutarlo anche tutti i partiti, compreso il KMT, ma il DPP è il più credibile in tal senso per gli elettori grazie al suo contemporaneo rifiuto del "consenso del 1992" e sulla sua insistenza sull'identità taiwanese. Le percentuali di Tsai salgono in maniera sempre più netta. E una mano arriva anche dall'economia. I dati di crescita del 2019 sono migliori del previsto, così come gli outlook positivi sul 2020. Non tanto per la New Southbound Policy che nei piani del governo di Taipei dovrebbe approfondire i legami commerciali e cooperativi con i paesi dell'area Asean, ma per gli effetti distorsivi della trade war tra Stati Uniti e Cina, che portano diverse aziende taiwanesi (al momento oltre 150) a riportare la propria linea produttiva sull'isola per evitare le tariffe americane.
In più, lo Yuan aveva approvato (in esecuzione di una sentenza della Corte Costituzionale) i matrimoni tra persone dello stesso sesso, segnando un punto nella direzione dei diritti civili dopo un aspro dibattito interno. A fine agosto Tsai opera il sorpasso nei sondaggi, poco dopo che Han sconfigge alle primarie del KMT il miliardario Terry Gou, patron di Foxconn e già ospite di Donald Trump alla Casa Bianca. Da lì in poi la forbice si allarga sempre di più. Complice anche la scelta sfortunata di alcuni candidati legislativi da parte del KMT, costretto a rivedere la sua lista dopo che alcuni dei suoi componenti erano stati criticati per le posizioni favorevoli alla riunificazione. Tsai, prima percepita come troppo fredda e distaccata, riesce a imporsi come "protettrice" di Taiwan. La rielezione, con questi presupposti, era pressoché scontata.
LE SFIDE FUTURE PER IL DPP E PER IL KMT
Ciò non significa che per il DPP sia tutto in discesa. Vero che più il tempo passa e più il sentimento di taiwanesità, se si ritengono affidabili sulle preferenze in materia degli elettori più giovani, dovrebbe favorirlo. Ma altrettanto vero è che proprio tra i più giovani il DPP non sembra essere il partito favorito. I media internazionali definiscono il DPP "pro indipendenza", spesso in maniera troppo semplicistica. Il partito, così come la stessa Tsai, ha sempre ripetuto di voler mantenere lo status quo e di voler evitare provocazioni a Pechino (che invece non è d'accordo visto il rifiuto del "consenso del 1992" e le relazioni sempre più strette con gli Stati Uniti), e per questo potrebbe essere considerato un partito di centro se si considerano di un "green" più acceso le forze più aggressive sul tema dell'indipendenza e col "blue" le forze più favorevoli a un riavvicinamento a Pechino.
Solo il 72% di chi ha votato Tsai alle presidenziali ha votato anche il DPP alle legislative. Questo significa che il 28% di chi ha scelto di confermare la presidente DPP non ha votato lo stesso partito sulla seconda scheda. Quei voti sono andati in gran parte ad altri partiti "verdi", come il New Power Party (3 seggi), il Taiwan Statebuilding Party (1 seggio conquistato in maniera sorprendente nella roccaforte KMT di Taichung) o lo stesso Green Party, che è però rimasto fuori dallo Yuan non avendo raggiunto la soglia di sbarramento del 5%. Il DPP ha perso 7 seggi, scendendo a 61, ma ha comunque mantenuto la maggioranza dopo la catastrofe elettorale di fine 2018. Ma parlare di trionfo di partito sarebbe errato. Anzi, nei prossimi anni il DPP dovrà cercare una migliore forma di comunicazione con gli elettori più giovani.
Più compatto il blocco KMT, che ha votato sia presidente che partito nell'87% dei casi. Il tutto a svantaggio del People First Party di James Soong, che alle presidenziali è passato dal 12,8% del 2016 al 4,3% e che alle legislative non è riuscito a conquistare neppure un seggio dopo averne avuti tre nella legislatura in via di conclusione. Passando in rassegna tutti i dati, ciò significa che i rapporti di forza tra "green" e "blue" sono rimasti quasi inalterati. Alle presidenziali Tsai ha fatto il record di voti assoluti ma è cresciuta solo di un punto (57,1% contro 56,1%) rispetto a quattro anni fa, mentre Han ha conquistato oltre il 7% in più del predecessore Eric Chu, passando dal 31% al 38,6%. Vale a dire i voti persi dall'altro candidato "blue" Soong.
Alle legislative va invece registrato l'emergere di una nuova forza che potrebbe davvero configurare l'avvento di un sistema multipartitico. Vale a dire il Taiwan People's Party, che ha conquistato tre seggi a soli pochi mesi di distanza dalla sua fondazione. Il leader di questo partito, che si propone come anti sistema, è Ko Wen-je, il sindaco di Taipei popolarissimo soprattutto tra i giovani della capitale. Ko ha già fatto capire che si candiderà alle presidenziali del 2024, che potrebbero davvero diventare una corsa a tre. A patto che il KMT riesca a ristrutturarsi e ridefinirsi profondamente. Han si è rivelato il candidato sbagliato. La città in cui è sindaco, Kaohsiung, gli si è rivoltata contro in un solo anno ed è tornata a votare in massa per il DPP. Presto per dare il KMT per spacciato. Alle elezioni locali del 2022 il focus potrebbe tornare, come di solito avviene per il voto amministrativo, su questioni economiche e la musica potrebbe cambiare. Ma, nel lungo periodo, un puro fattore temporale e demografico sembra penalizzare KMT e Repubblica di Cina. Tra gli analisti c'è chi ritiene che il KMT debba persino intensificare la sua politica pro Pechino in modo da garantirsi uno zoccolo duro che magari non gli consentirà di lottare per la presidenza o la maggioranza allo Yuan ma che gli garantirà la sopravvivenza. Scenari che comunque non sembrano immediati.
#Taiwan2020 votes counting pic.twitter.com/zIGMQhAelZ
— Lorenzo Lamperti (@LorenzoLamperti) January 11, 2020
SCENARI GEOPOLITICI FUTURI
Più immediata la reazione di Pechino alla vittoria di Tsai. Il governo e i media cinesi hanno ribadito il processo di "riunificazione pacifica" attraverso il modello "un paese, due sistemi". Il dialogo con Taipei sembra però impossibile da riprendere, almeno in questa fase. L'imposizione del "consenso del 1992" da una parte e il suo rifiuto dall'altra rendono qualsiasi possibilità di compromesso. Presumibile dunque che si vada avanti come nei quattro anni precedenti. Pechino continuerà a provare a limitare lo spazio diplomatico di Taipei, cercando di diminuire ulteriormente il già esiguo numero di nazioni (al momento 15) che riconoscono la sua sovranità. A questo proposito, l'avvicinamento in corso tra Repubblica Popolare e Santa Sede, con Bergoglio che ha annunciato di voler visitare la Cina dopo l'accordo sulla nomina dei vescovi del 2018, inquieta non poco Taiwan. L'eventuale switch del Vaticano rischierebbe di portare con sé la catena di paesi del Centro e Sud America composta da Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Paraguay, Saint Kitts & Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent & Grenadines.
La perdita di ulteriori alleati sarebbe uno svantaggio innegabile per Taipei, soprattutto perché questi paesi, purché piccoli, possono periodicamente farsi portavoce delle sue istanze. Anche se alcuni di loro, come Nicaragua o Haiti, non brillano certo per rispetto dei diritti umani, civili o democratici. Certo, nella posizione di Taipei qualsiasi appoggio può servire, ma certo gli assegni staccati talvolta stridono con la formula dei "like minded partners" ("partner affini"), che l'amministrazione Tsai vuole portare avanti.
Allo stesso tempo i rapporti più importanti sono forse quelli non ufficiali, in primis quelli con gli Stati Uniti. L'amministrazione Trump si è dimostrata particolarmente attenta al tema Taiwan, anche per l'approccio molto aggressivo nei confronti di Pechino sul piano commerciale e non solo. Nel 2018 è stata ampliata la presenza diplomatica americana a Taipei, con l'ampliamento dell'American Institute in Taiwan che è una sorta di ambasciata de facto. Il tutto mentre la presidente Tsai ha fatto due volte scalo in territorio americano durante le sue visite in America Centrale e America Latina e la cooperazione economica e militare si sono intensificate. Al momento Trump non ha ripetuto la telefonata di congratulazioni del 2018, ma sono comunque arrivati i tweet del segretario di Stato Mike Pompeo e di John Bolton, nonché di diversi altri deputati e senatori statunitensi. E nei prossimi mesi non si escludono mosse del Congresso sulla scia delle leggi su Hong Kong e Xinjiang degli scorsi mesi, con il rischio di creare un possibile flashpoint con Pechino.
Intanto a Taiwan si gioca anche una curiosa partita italiana. Nel nostro paese esiste poi un gruppo di amicizia interparlamentare di Taiwan, fondato da Lucio Malan di Forza Italia, di cui fanno parte esponenti di cui fanno parte esponenti di diversi partiti. Ma particolarmente attivi negli ultimi mesi sono i membri del gruppo iscritti a partiti di destra, in particolare Lega e Fratelli d'Italia. A novembre una delegazione di parlamentari leghisti guidata dall'ex ministro Gianmarco Centinaio ha visitato Taiwan incontrando il vicepresidente, il ministro degli Esteri, il presidente del Parlamento e i viceministri di Economia, Giustizia e Salute. E nei prossimi mesi potrebbe tornare una nuova delegazione stavolta mista, con esponenti sia di Lega sia di Fratelli d'Italia.
D'altronde la Lega, da quando è passata all'opposizione, ha assunto una linea in politica estera di grande ostilità verso la Cina, nel tentativo di rientrare nelle grazie dei Repubblicani di Donald Trump dopo che il Savoinigate aveva rischiato di comprometterne l'affidabilità presso Washington. Ecco perché allora la Lega sta attaccando Pechino su tutti i fronti: 5G, Xinjiang, Hong Kong e, appunto, anche Taiwan. Dall'altra parte Fratelli d'Italia, pur non essendo un partito maggioritario come i partner sovranisti del Carroccio, potrebbe apparire meno compromesso agli occhi di Washington. D'altronde il partito di Giorgia Meloni è in ottimi rapporti con l'Ungheria di Orban, la Polonia di Kaczynski e il resto del blocco di Visegrad (tutti paesi vicini a Trump), non è vicina alla Russia di Vladimir Putin quanto la Lega di Matteo Salvini. E viene ritenuta meno ondivaga sulle questioni internazionali, mentre la mutazione genetica sovranista ha comportato qualche smottamento alla Lega, per esempio in merito alle rivendicazioni separatiste della Catalogna.
Taiwan, che ha nei suoi piani quello di intensificare i rapporti e la cooperazione con i paesi europei (partendo dall'esempio di Praga, il cui sindaco ha avviato i rapporti con Taipei), dovrà imparare a mantenere la giusta distanza. Anche dagli amici.