Esteri

Usa, la Clinton gioisce (ma non troppo)

Di Gianluca Pastori
 
L’annuncio di Joe Biden di volere rinunciare alla corsa alla nomination democratica e l’enfasi posta nel suo discorso di rinuncia sull’importanza storica dell’amministrazione Obama rappresentano un passaggio centrale in vista delle elezioni presidenziali previste per il novembre del prossimo anno. Da un lato esse portano un elemento di chiarezza in uno scenario ancora caratterizzato da parecchie incertezze, dall’altro chiamano in causa quelli che, fino adesso, sono stati i convitati di pietra del dibattito: il presidente uscente e la sua (non facile) eredità. Entrambi questi elementi sono destinati a giocare un ruolo importante nei prossimi mesi: nell’immediato, il passo indietro di Biden screma la lista dei potenziali successori di Obama di un candidato ‘pesante’, non fosse altro che per il suo ruolo istituzionale; in una prospettiva più ampia, esso indirizza la competizione in un alveo non privo di problemi per i candidati rimasti sulla scena. L’impegno a volere continuare a fare sentire il proprio peso nel dibattito in corso è un altro fattore da tenere in conto, quasi che il vicepresidente uscente, dall’alto della sua posizione e forte della sua esperienza politica, volesse assumere in pectore il ruolo di coscienza critica rispetto alle decisioni di chi, all’interno del suo partito, potrà trovarsi alla guida degli Stati Uniti negli anni a venire.
 
In questo senso, il primo pensiero non può non rivolgersi a Hillary Clinton. L’ex segretario di stato è il candidato che, per affinità politica, più beneficia della decisione di Biden. Dopo la buona prova nel dibattito con quello che si presenta ormai come il principale (seppure improbabile) rivale alla nomination, il senatore del Vermont Bernie Sanders, e davanti all’inconsistenza manifestata dagli altri possibili sfidanti, l’uscita di Biden dalla competizione accresce di parecchio il suo vantaggio, anche se una serie di questioni aperte (dal recente ‘mailgate’ alla vicenda dell’attacco al consolato di Bengasi costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens) continua a essere fonte di difficoltà. Il richiamo di Biden all’esperienza e all’eredità dell’amministrazione di cui fa parte è, di contro, un richiamo forte al ruolo che anche la Clinton ha avuto in tale amministrazione (almeno per il suo primo mandato) e al contributo che ha dato ad alcune sue scelte che oggi paiono essere messe in discussione. Da questo punto di vista, quindi, le parole del vicepresidente puntano al cuore di quello che molti vedono come il principale limite di Hillary Clinton, ovvero la sua percepita ‘freddezza’  riguardo a temi di politica interna e internazionale che, per Obama e per il suo entourage, hanno costituito importanti cavalli di battaglia.
 
Indirettamente, quello di Biden è quindi, per vari aspetti, un messaggio che si dirige al Partito democratico nel suo insieme. Esso rappresenta inoltre un indice delle divisioni che continuano a esistere in seno al partito stesso. La sfida di Sanders, esplicitamente richiamata all’esperienza della socialdemocrazia europea, è oggi la manifestazione più evidente di queste divisioni. Esse, tuttavia, erano già venute a galla nel 2008, quando la campagna per la nomination aveva visto fronteggiarsi Hillary Clinton e Barack Obama. Il compromesso che allora aveva consentito al partito di presentarsi compatto al voto aveva lasciato sostanzialmente aperta la questione, questione che l’assorbimento della Clinton nella squadra di governo dell’ex rivale non aveva fatto che accentuare. Non a caso, la tensione fra diverse anime è stata forse il limite maggiore dell’amministrazione Obama. Questo limite si è riproposto (seppure in forme diverse) durante il suo secondo mandato e, in forme ancora diverse, rischia di riproporsi in una nuova amministrazione Clinton; questo sia nella sfera della politica interna, nella quale il progetto ‘Obamacare’ ha dovuto scontrarsi con l’ostilità di diversi esponenti del partito del presidente, sia in quella internazionale, nella quale il nuclear deal con l’Iran è stato oggetto di un’ostilità largamente bipartisan.
 
Queste considerazioni non sono prive di ricadute sul Partito repubblicano. A differenza dei rivali, i vertici del Grand Old Party non paiono avere ancora individuato un cavallo su cui puntare nella ormai vicina competizione. Ancora più che in casa democratica, le divergenze esistenti in seno al partito hanno imposto il proprio pedaggio. Inoltre, in una realtà che ormai da tempo flirta con le pulsioni di un’antipolitica dalle profonde radici culturali, la sfida ideologica e comunicativa di Donald Trump ha agito come ulteriore elemento di disturbo. Rispetto a questo scenario, il richiamo alla compattezza lanciato da Biden non può non avere effetti, così come non può non avere effetti la ‘mano tesa’ che il vicepresidente ha offerto proprio al GOP. Non si tratta di delineare improbabili scenari di convergenza. Piuttosto, il messaggio di Biden sottolinea la necessità, per il partito che controlla il Congresso, di affrontare il problema dei propri equilibri interni, rispetto ai quali la frattura provocata dalla nascita del Tea Party e dal peso che le figure a esso legate hanno assunto negli ultimi anni ha innescato un processo di revisione che non sembra essere stato ancora affrontato appieno e che non può essere derubricato a fenomeno transitorio come l’ascesa dell’‘antipolitico’ Trump o, a suo tempo, quella del suo antesignano Ross Perot.
 
Qualcosa inizia forse a muoversi nelle acque apparentemente stagnati della campagna presidenziale? I prossimi dibattiti pubblici potranno dare una risposta a questa domanda.  Entro la fine dell’anno i candidati repubblicani, già reduci da due dibattiti, il primo ad agosto, il secondo a settembre, si confronteranno altre tre volte (Colorado, Wisconsin e Nevada) nella speranza di sfrondare un elenco che oggi comprende ancora quattordici nomi. Un problema che non sembra toccare la loro controparte, stando almeno al fatto che non si sanno ancora i nomi di chi parteciperà ai due appuntamenti organizzati dal Partito democratico da oggi alla fine di dicembre, in Iowa il 14 novembre e nel New Hampshire il 19 dicembre. Intanto, le prime prove concrete in vista della consultazione di novembre incombono a grandi passi, con i caucus dell’Iowa previsti il 1° febbraio e le primarie di New Hampshire in programma per il 9. A quel punto, molti nodi saranno giunti al pettine. Nel frattempo, un dubbio rimane in sospeso: l’endorsement di fatto di Hillary Clinton da parte dell’amministrazione si tradurrà in un rafforzamento della sua posizione presso l’opinione pubblica o condurrà a una campagna elettorale fortemente polarizzata come è accaduto per quelle che, in due occasioni, hanno condotto alla scelta del suo predecessore?
 
Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

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