"Il cibo naturale non esiste", parla Dario Bressanini
"I falsi miti? Che esistano cibi miracolosi". L'intervista di Affari Italiani
Wikipedia su Dario Bressanini: chimico, divulgatore scientifico e saggista italiano. Scrive tanto, lavora come ricercatore presso il dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia dell'Università degli Studi dell'Insubria (Como) ed è pure passato a YouTube: per non farsi mancare nulla. Qualche suo libro: OGM tra leggende e realtà (2009), Pane e bugie (2010), Le Bugie nel carrello (2013), Contro natura. Dagli OGM al «Bio», falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (2015). È cuoco amatoriale, dice Facebook. Nemico del «Bio», dicono i detrattori («Ma io riporto solo quello che sostiene la ricerca scientifica: il biologico non ha migliori proprietà nutrizionali»). E odia la disinformazione in campo alimentare, dice lui. Di questo, e altro, parla con Affari Italiani.
Partiamo dai falsi miti.
«Domanda complessa, sono tanti. Comunque: che esistano cibi miracolosi, con chissà quali magnifiche proprietà nutrizionali, sicuramente, è un falso mito. Ogni anno ce ne sono di nuovi, però: come le bacche di Goji o i semi di Chia. Altro mito da sfatare, al contrario, è che esistano cibi da condannare e che sarebbero veleni per l’uomo sempre e comunque. In realtà la scienza nel cibo non riconosce né prodotti miracolosi, né veleni: in generale, è sempre una questione di dosi».
Per esempio?
«Per esempio lo zucchero. Viene demonizzato a causa di una iper-semplificazione che trova spazio su giornali e riviste. E’ ovvio che abusarne non faccia bene. Ma si è radicata una percezione: che lo zucchero bianco sia dannoso, mentre quello di canna, o comunque non raffinato, sia benefico. In realtà, in questi termini, non c’è assolutamente nessuna differenza. Invece di ridurre il consumo di zucchero, mi capita di vedere persone che evitano quello bianco (“un veleno”) ma poi non hanno problemi con quello scuro (che al 92%-97% è sempre composto da saccarosio con un po’ di fruttosio e glucosio)».
Disinformazione.
«Spesso sono trucchi di marketing: per vendere un prodotto e non un altro. Si fa molto leva sulla paura (per dire: “senza olio di palma”). Il problema è questo: dovremmo chiederci non cosa non c’è in un prodotto, ma cosa c’è e in che dosi. Di sicuro l’olio di palma è un grasso parzialmente saturo di cui bisogna limitare il consumo (come di altri grassi saturi). Però se passa l’idea che solo un determinato prodotto fa male e tutti gli altri, di conseguenza, si possono consumare senza problemi, si dà un messaggio scorretto».
Qual è il punto?
«Questo: non è sbagliato mangiare troppe merendine perché c’è l’olio di palma, è sbagliato mangiare troppe merendine. Indipendente dall’olio di palma, di cocco, di girasole».
Un altro esempio.
«Il Kamut. Il Kamut – che può piacere o meno, certo - viene dipinto come un qualcosa di più salutare. E non è vero. Il grano “normale”, invece, viene denigrato. In Italia ne importiamo più del 50% della produzione mondiale dalla statunitense Kamut International: che ha un monopolio. E’ quasi esclusivamente coltivato tra il Montana e il Saskatchewan (una zona del Canada) da agricoltori selezionati. E in Europa è venduto attraverso una società di distribuzione che pagando le relative royalties riesce poi a metterlo sul mercato. Solo le aziende autorizzate possono acquistare e commercializzare questo cereale. Non molti lo sanno: ma la Kamut International ha registrato il marchio. Nessun coltivatore italiano può produrre questo tipo di grano (il Khosaran: una delle varietà di grano esistenti, che prende il nome da una provincia in Iran in cui ancora oggi si coltiva) e chiamarlo, a suo piacimento, “Kamut”. La popolarità del Kamut è nata con una leggenda: si narra di una manciata di semi antichi trovati - subito dopo la Seconda guerra mondiale - dentro tombe egizie, piantati e poi, incredibilmente, dopo 4000 mila anni, germinati. Tutto molto suggestivo. Ma estremamente improbabile. Il termine “Kamut”, poi, deriva dalla scelta di Bob Quinn: un giovane di Big Sandy (nel Montana, appunto) con un dottorato in patologia vegetale e una buona propensione per gli affari, che decise di usare un nome egiziano per dare un’identità riconoscibile al prodotto, e rilanciarlo».
«Consultando un dizionario dei geroglifici egizi nella biblioteca locale, accanto alla descrizione di grano e pane trovò la parola “kamut”», scrive nel libro Le Bugie nel Carrello.
«E nel 1989 fondò la Kamut International. Il successo di oggi, e non solo del Kamut, è dato dalla moda per i “grani antichi”: varietà o specie di grano che da decenni o secoli erano state abbandonate perché poco remunerative ma che oggi sembrano “più naturali”, con speciali proprietà nutrizionali. I consumatori li cercano, e le aziende rispondono».
Ma che cos’è il cibo naturale?
«Non esiste il cibo naturale».
Non esiste il cibo naturale?
«Se per “naturale” intendiamo qualcosa che è sempre stato, così, allo stato selvatico, senza nessun tipo di intervento umano, potremmo riferirci a qualche bacca selvatica o ai mirtilli, magari i pesci non allevati, ma niente di più. Gli agricoltori hanno sempre fatto una selezione: frutta più dolce, per esempio, o cereali più grandi. Mi sembra ovvio. Se si va in un bosco, si trovano pomodori o peperoni? Che certe modificazioni genetiche avvengano spontaneamente o in laboratorio cambia poco».
E arriviamo agli OGM.
«Su argomenti del genere c’è una comprensibile paura. Alcune modifiche sono avvenute spontaneamente, e ce ne siamo dimenticati. Oggi che possiamo determinarle, invece, c’è poca fiducia. Naturalmente, dietro, ci sono anche interessi: sia da parte di chi promuove gli OGM, sia da parte di chi si oppone. Nulla di scandaloso, però».
Gli interessi economici, quindi, non sono solo da una parte.
«Voglio dire: l’agro-business è fatto da aziende. Nel promuovere “cibo naturale” c’è un interesse. Anzi: ci sono multinazionali, come quelle che producono pesticidi, che sarebbero danneggiate dagli OGM. E per questo sono contrarie».
Ma gli OGM sono pericolosi?
«No. Non ci sono casi nel mondo di persone che abbiano avuto ripercussioni per l'aver consumato, direttamente o indirettamente, OGM. OGM approvati e messi regolarmente in commercio. E non potrebbe essere altrimenti: proprio perché se ne discute molto (e quasi sempre in negativo) ci sono molti più controlli».
Il cibo, secondo lei, è diventato una religione?
«Non so perché si sia scatenata questa apprensione per il cibo negli ultimi anni. E’ un argomento che lascio ad antropologi, psicologi e sociologi. Dico questo: finché il cibo è stato scarso, e lo è stato per secoli, non c’era materialmente la possibilità che si manifestasse quest’apprensione. Banalmente, la paura per il cibo nasce dal poter andare in un supermercato e poter scegliere tra tanti prodotti. Mia nonna non andava al supermercato: quello che c’era al mercato, mangiava. Non c’erano alternative. Oggi sì: ma solo perché viviamo in un sistema economico che permette la produzione e soprattutto la distribuzione di molti cibi».
Sulla divulgazione di certi temi la scienza sta perdendo?
«Non credo, non sono catastrofista. Degli scienziati ci si fida ancora - più dei giornalisti. Il web, e poi i social network, hanno portato alla luce fenomeni sempre esistiti (il complottismo). Però dobbiamo capire che la ricerca scientifica può essere strumentalizzata, portarci a credere quello che non è vero. Quando si leggono notizie sensazionali sul cibo (tipo: “Il vino cura il cancro”) non si dovrebbe rimanere suggestionati. Cerchiamo di andare oltre, chiediamo le fonti. Non crediamo al primo guru di turno. Approfondiamo: e non accontentiamoci».
@Simocosimelli