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"Tutto è sempre ora", le poesie di Antonio Prete
La recensione di Lidia Sella
Il nuovo libro di Antonio Prete, pubblicato da Einaudi nel settembre 2019, risulta intrigante sin dal titolo: Tutto è sempre ora, un verso tratto da I quattro quartetti di Eliot. Nella raccolta confluiscono sia prosa lirica che poesia pensante. Sono presenti inoltre alcuni componimenti in dialetto, con traduzione in italiano. Sullo sfondo, la campagna senese, la culla del Salento, i navigli leonardeschi di Milano, l’arazzo del firmamento, Venezia, Lisbona e altri nidi di commozione. Le diverse sezioni (Nel respiro dell’ora, Torre sveva, Lengua Mara, Taccuino blu, Dell’apparenza) portano nomi che già introducono al sogno, invitano all’avventura interiore, sprigionano magia. Questa silloge è un distillato di riflessione che funziona da antidoto ai veleni del destino, forse perché sincronizzata sui sacri ritmi di natura. Prete suggerisce domande che già di per sé contribuiscono a svelare il senso: “C’è tra questa pianura / di moltitudini in affanno e quella / inesplorata volta di cammini / astrali un arco o patto? / C’è tra questa sperduta nostra aiuola / e quello sconfinato arabesco / di ellissi e di bagliori / un battito, un accordo / di abissale segreta comunanza?”
Scrittura sapiente, si apre un varco nel profondo, quasi speleologia dell’anima. Mentre penetra nel nucleo dell’essere, incappa nel volto inquietante del divenire. E apre a scenari sconfinati. Prete scatena emozioni estreme. Conduce il lettore sull’orlo di un buco nero, là dove il tempo si ferma, diventa eterno, e l’istante si replica all’infinito. Vari elementi concorrono a caratterizzare la poetica di Prete: una parola affilata, luminosa, evocativa; la capacità di creare empatia; un’introspezione insieme rigorosa e visionaria; la vocazione a intessere trame cosmiche; la malia per l’infinito ciclo delle metamorfosi. Quest’opera è uno specchio che custodisce, e riflette, tutto quanto una coscienza nutrita di moderno sapere scientifico, antica saggezza, sconfinata cultura letteraria, e solitarie meditazioni può aver appreso, e compreso, riguardo all’Universo e ai suoi strani abitanti. “E camminano i morti lungo le rive / deserte di tempo. (...) Una bolla / è il mondo gonfia di niente / che fluttua piano nell’aria / sotto un cielo di stelle spente.” Qualcuno potrebbe accusarlo di nichilismo. Prete osserva invece tutto da un’immensa lontananza, in una luce sfumata.
Si cala nelle distese d’ombra che separano gli astri, là dove i profili si confondono, i contorni si sgranano, e allora un’altra realtà affiora, non meno oggettiva di quella consueta. La lucidità, ci avvisa il poeta, esige distanza. Di fronte alla voracità del nulla, alle scorribande del male, allo sgretolarsi dei valori, Prete reagisce: “nomina le stelle per mitigare la vertigine”, trova rifugio nel caleidoscopio della fantasia, si affida alla filosofia del sentire. Sempre attento alle lezioni impartite dalla storia, non smette mai di interrogarsi sul mistero. Prete si rivolge a sé stesso, ai suoi poeti prediletti, alle galassie, alle piante o agli amati animali. Parla a una lupa: “Trascorrevano nei tuoi pensieri / tremiti di foreste, profumati / richiami della macchia, della riva. / Erano ombre dei miei pensieri. / Ma una volta vidi con certezza / nella giada dei tuoi occhi / scaglie della sapienza dalla quale / ci allontanò l’elegia del fare, / l’ansia del distruggere.” A un gatto, Prete scrive: “Il tuo silenzio è una lavagna / di eleganti geroglifici. / Se carezzo il tuo velluto / sei tu a guidare la mia mano. / Te ne stai privo di pensieri, nel giardino senza tempo / dove germogliano i pensieri. / Raccolto in te, il mondo sprofonda / senza rumore in una sua bianca / fluttuante inesistenza.” Prete racconta l’infanzia: “Gli orti di limoni [,... ] il mareggiare degli ulivi.[...]Il carrettiere con la frusta nella luce del mattino.” “L’erba, l’erba mattutina, / com’era nell’infanzia lucente / l’erba, com’era odorosa, con la sua brina. / Com’era forte l’albero, / tutto pieno di primavera. E la luce, com’era bianca la luce, / fin dentro il cuore della sera. / Quanto al blu delle notti, / non l’ho dimenticato, / anche se presto scomparve. / Talvolta fa da stellato sfondo / alle larve che nuotano mute / nell’acquario dei sogni.” In una pennellata, Prete descrive la giovinezza: “Acerba intimità con l’impossibile. / Era cielo, era carne il desiderio. (...) Il sogno divorava l’orizzonte.” Prete resuscita gli amori: “È forse ancora qui, [...] / quel nostro antico discorrere d’amore. / È forse ancora qui, parvenza e gelo, / quell’amarsi, silenziosi, sul terrazzo, / nell’ultima luce di aprile, [...] Dalla darsena salivano lampi, / piccoli lampi sulle tue labbra. / La prima stella. La tua pelle. / L’ora imprigionata nei baci. / Questo battere d’ali del niente / era già brivido nei nostri abbracci?” Prete rivive l’angoscia della guerra: “Poi, in un pallore da pellicola sfocata, / l’urlo delle sirene, il solco / delle squadriglie nel cielo, / il rifugio scavato sotto il fico. / Una faccia di gesso t’inseguiva / in sogno, scarmigliata, veste nera, / correvi a perdifiato nella strada / di polvere, svoltavi l’angolo: / la guerra, mamma, la guerra, / gridavi svegliandoti nel buio.”
Ci sono tematiche, passioni, atmosfere che ritornano più di frequente. “Nella luce di dicembre / l’assenza del mare è opaco assillo.” Ovunque aleggia la nebbia del rimpianto. “Tra poco in alto brillerà Auriga, / con i cuccioli, la capra, le nebulose. / Gli chiederò che tenga a bada / dalla sua splendente lontananza / lo sciame d’anni che alle spalle / manda ronzii, rimugina rimpianti.” Tutto ruota attorno alla possente calamita del tempo. “Il tempo che è cammino e apparizione. / Pulsazione di radice, / vertigine / di millenni. / il tempo che è solco / di conchiglia e fuga di comete.” Il “dolore dell’impossibile” investe il già vissuto, i destini mai sbocciati, quel futuro che ci è precluso. Un po’ come se Prete volesse prendere congedo, tirare le somme di un’esistenza, capire davvero che cosa resta. Alla fine. Forse solo la struggente dolcezza degli addi? “Il canto roco, eguale, di rotaie / mentre i vagoni rigano pianure / e intorno corrono alberi, anni, cieli / la tua mano che m’avvolge la sciarpa / sul bavero nelle albe degli addii, / tutto è sempre ora. / Il transito, la cenere, l’aurora, / tutto è sempre nel respiro dell’ora.”
Il tempo ci trascina con sé, e noi gli opponiamo resistenza. Una lotta vana, poiché quel fiume scorre dentro e fuori di noi, crudele mostro ci stritola fra le sue spire. Con terrore si ritraggono i ricordi dinanzi alla ghigliottina dell’oblio, istanti splendidi rotolano giù dal pendio della memoria. Prete li raccoglie amorevolmente nel retino della lingua, dove si trasformano in farfalle dai mille colori. E, mentre si librano verso l’alto, ne ammiriamo il volo. Incantati. Come in compagnia di Omar Khâyyam, Lucrezio, Nietzsche, Leopardi, Antonia Pozzi, qui si respira l’aria azzurra e rarefatta delle vette. In effetti occorre coraggio per lanciarsi senza paracadute nell’ignoto e, strappato ogni velo alla morte, bruciati i feticci di qualunque superstizione, credere esclusivamente nel cosmo, nelle sue leggi spietate, nel suo canto, e nella sua danza, nelle nozze ancestrali fra spazio, tempo, materia, energia, nel dialogo del Sapiens con i silenzi stellati. Senza armi. Solo l’intelletto, e il cuore, a fare da scudo al Nulla. Questa la via indicata nella mappa del tesoro che qui Prete ha tratteggiato.