Politica

Governo, addio “bonaccia” fra partiti e premier. Ma Draghi non si tocca

Di Massimo Falcioni

Da una parte Draghi è sotto la spada di Damocle dei sindacati per disaccordi sulla manovra con i metalmeccanici della FIOM già in lotta con 8 ore di sciopero e con le confederazioni Cgil-Cisl-Uil che minacciano l’astensione generale dal lavoro e dall’altra è sotto i riflettori per il vertice a Roma dei Grandi incassando già alla vigilia del meeting capitolino i complimenti del presidente Usa Joe BIden: “You are doing a hell of a job”. Un: “Bravo Mario per il lavoro straordinario che state facendo in Italia, Paese baluardo delle democrazie” che male non fa, anzi fa benissimo anche nel contesto più specificatamente europeo. Bene, specie dopo la recente approvazione in consiglio dei ministri della legge di bilancio 2022, da ripulire, senza stravolgimenti.

Legge con sul piatto trenta miliardi che non sono bruscolini, consentendo – non senza limiti e contraddizioni – quella manovra espansiva che come Draghi aveva preannunciato, con il placet di Confindustria e la soddisfazione dei mercati-  crea le condizioni per riportare economicamente l’Italia intanto alla situazione pre pandemia. Ma non è tutto oro quel che luccica. A preoccupare ci sono le convulsioni dei partiti, sempre più “scatole vuote”, con le loro beghe interne, con la mai sopita brama di potere. Partiti che, specie dopo la batosta presa da Letta-Pd e da Conte-5stelle sulla “bega Zan” (non una questione di lana caprina), si apprestano a cambiare passo con la possibile fine della “bonaccia” nel rapporto fra il premier e le forze politiche che lo sostengono in parlamento.

Intendiamoci, vista la popolarità che Draghi continua a godere fra gli italiani e visto il suo consenso internazionale, in primis in Europa, qui oggi nessun leader di partito e nessun partito che lo sostengono in parlamento osa sfidare apertamente il premier, anzi profondendosi in lodi pur se con tonalità diverse. Tutti – pur con tatticismi diversi – cercano di tenere la ruota del capo del governo sfruttandone la scia e, caso mai, tentare poi  sulla linea d’arrivo delle grandi scadenze più o meno vicine (elezioni del capo dello Stato e poi elezioni politiche anticipate o non) di beffare amici ed avversari.

Che significa? Che i partiti, ob torto collo, lasciano ancora a Draghi la scena, storditi dal suo decisionismo efficientista da padre di famiglia severo che fa ingoiare ai figli la pillola amara, per il loro bene. Dietro alle quinte stanno però tutti tramando, ognuno pro domo sua. Come sempre, si dirà. Sì, ma stavolta l’Italia, lasciata alla deriva da decenni e indebitata come non mai, può riacquisire credibilità internazionale, rialzare le vele e riprendere il largo puntando ad approdi più sicuri: se si fallisce la sfida del Recovery Plan  non c’è un secondo tempo, non c’è un’altra partita, non c’è un altro campionato.

Si esce dal campo, si esce dai gioco: da tutti i campi e da tutti i giochi. Passate le recenti elezioni amministrative con il segnale d’allarme dell’astensionismo record (per Letta e il Pd c’è il rischio di una vittoria… di Pirro) e riemersi gli interessi di parte con sindacati e partiti sempre più chiusi nelle rispettive “ trincee corporative” non sarà facile per Draghi proseguire con il passo del decisionismo, fuori da mediazioni e compromessi. Ma quella di lasciare Draghi a Palazzo Chigi è oggi l’unica possibilità per tenere l’Italia sui binari, evitando il deragliamento.

Ciò è possibile solo congelando gli attuali assetti, dando stabilità politico-istituzionale per il prossimo anno e mezzo, con Mattarella rieletto pro-tempore al Colle per poi dimettersi dopo un anno, con Draghi stabile a Palazzo Chigi fino alla scadenza della legislatura, o giù di lì. Altra via non c’è per  rimette in piedi l’Italia, quanto meno, evitandogli il crack. E i partiti? Costretti a mandar giù il rospo. Sperando che la lezione buon pro gli faccia.