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Politica
Governo, i partiti si passano il cerino: diritti al voto?
Foto LaPresse

Di Massimo Falcioni

Si resta a Flaiano: “La situazione politica è grave ma non è seria”. A due mesi dal voto, fra veti incrociati ed egoismi personali e di partito, non c’è possibilità di formare uno straccio di governo. Dal ping pong al gioco dell’oca. L’ultima carta con un senso e uno spessore politico, o quanto meno con uno spiccato senso tattico, l’ha giocata nelle ultime ore, venerdì, Matteo Salvini. Il leader del Carroccio concordando con il sempre meno recalcitrante Silvio Berlusconi (e con Giorgia Meloni) quel “governo di scopo” Centrodestra-M5S a trazione leghista - governo a tempo fino a dicembre capace almeno di non lasciare l’Italia latitante di fronte alle pressanti scadenze europee su cui insiste Mattarella – si prende il centro della scena puntando a un futuro che si costruisce oggi. Il “No” secco dei 5 Stelle brucia la proposta di Salvini che però va comunque all’incasso prendendo più piccioni con una fava. Il capo leghista, un passista scaltro e di gran fiato capace di exploit in dirittura d’arrivo, batte ogni pista per presentarsi nel ruolo di “responsabile” ed evitare al Paese la deriva politico-istituzionale. Così Matteo studia da “premier”, rafforza il proprio ruolo di leadership del centrodestra e fa crescere i consensi a una nuova Lega (come indicato dai sondaggi) di spessore, nazionale, dentro i fatti, di “lotta e di governo” con – all’opposto - i grillini nell’angolo, col chiodo fisso del voto subito per tentare di fermare l’erosione (o batosta?) elettorale. La clessidra detta l’agenda. Lunedì 7 maggio nuovo giro (il terzo) di valzer al Colle “per verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo”. Il quadro si completa e induce al pessimismo. Come detto, il M5S in difficoltà, non si schioda: o al voto o al voto! Rispolverando elmetto e baionetta, torna in trincea addirittura Grillo, sconfessando l’annaspante Di Maio, stretto nel suo “doppiopetto” iper istituzionalista. L’ex comico torna agli acuti del bel tempo che fu, stavolta punta ad emulare la Le Pen lanciando il referendum sull’euro, una trovata per superare l’empasse e tentare di ridare spinta a una base delusa in una campagna elettorale tutta in salita, a rischio precipizio. I 5 Stelle non accetteranno una eventuale soluzione istituzionale avanzata dal Colle e, conseguentemente, anche Salvini dirò “no”, non lasciando il monopolio dell’opposizione ai grillini. Allora? A meno di un miracolo, l’unico dato certo è che si andrà, presto molto presto, di nuovo alle urne. A settembre o addirittura, come mai accaduto, a luglio: non fa gran differenza. Fa differenza, invece, con quale governo ci si arriva al voto: falliti tutti i tentativi, dopo il doveroso “benservito a Gentiloni, non resta che affidarsi a un semplice esecutivo elettorale (non il governo di “tregua” del Presidente alla Monti, un minestrone con tutti dentro), per gestire le urne. A questo punto i singoli partiti hanno solo un obiettivo, passare ad altri il cerino acceso del voto anticipato. I nodi del Paese restano. E sull’altro fronte, quello del Pd e della sinistra? La direzione del Pd tenutasi il 3 maggio al Nazareno è stata l’ennesima occasione perduta senza un reale confronto politico sullo stato del partito travolto dalle urne, sullo stato della sinistra al suo minimo storico politico ed elettorale. Al Nazareno la priorità è un’altra e riguarda lo scontro di potere interno per chi comanda e chi decide sulle nuove liste elettorali.

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