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Le elezioni in Italia, una sfida tra democrazia e populismo

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È sempre più evidente che una larga parte del popolo italiano, che va dal ceto medio agli invisibili del lavoro, dalla borghesia impoverita ai reietti delle periferie, non tollera più le forme attraverso cui la nostra democrazia si perpetua e si manifesta. A cominciare dal rito elettorale. La sempre più bassa affluenza alle urne è il più evidente, anche se non l’unico, tra gli elementi rivelatori di questo disagio. Le inefficienze del nostro sistema di governo, la stanca retorica delle istituzioni e il diffuso malcostume nella pubblica amministrazione stanno allontanando l’elettorato dall’esercizio democratico.

Secondo gli italiani, è questo il dato, il sistema non è in grado di garantirgli quel benessere che un tempo era invece accessibile a molte fasce di popolazione. Dopo gli ultimi anni stentati, passati tra crisi reale e politica assente, una larga maggioranza del paese, spaventata e destabilizzata, si è così aggrappata al governo più dinamico che l’attuale classe dirigente poteva esprimere, il governo Renzi.

Renzi ha garantito le istituzioni dal cadere nelle mani del populismo e dell’Europa dei burocrati, e al tempo stesso ha salvato un’intera classe politica che rischiava di scomparire dalla storia. Ciò nonostante, il partito democratico, che di quella classe politica è primus inter pares, non gli è stato riconoscente e anzi ha opposto fiera resistenza al nuovo segretario, chiudendosi in un conservatorismo illogico nel timore che il “rottamatore” facesse tabula rasa del passato, quando invece egli era solo un argine al tramonto degli ultimi partiti usciti indenni dal Novecento. Tutto ciò ha rallentato quel dinamismo renziano che gli italiani avevano salutato con una ritrovata fiducia, sancita dalle elezioni europee del 2014. E ha aperto le porte ad alcune novità politiche.

Ma, come cantava Bob Dylan, “qualcosa sta accadendo, e non hai idea di cosa sia”. Quel qualcosa è il vento del populismo, anticamera dell’autoritarismo, che soffia forte sull’intero Occidente, dagli Stati Uniti fino a Francia e Regno Unito. Un male oscuro che ha come prima evidente conseguenza la tendenza delle masse elettorali ad abbracciare personaggi e idee che non hanno un profilo esattamente democratico ma che bene interpretano i mal di pancia di quelle classi sociali che si sentono tradite dai loro governanti, rei di averli resi più deboli e più poveri che in passato.

Se da un lato le disuguaglianze sociali allargano la forbice tra una piccola casta di ricchi e un oceano di meno abbienti, dall’altro questi ultimi sono spinti e livellati verso posizioni che politicamente si traducono in rabbia sociale. E chi meglio la interpreta, più voti ottiene alle urne. Pazienza, se poi dietro non c’è un pensiero strutturato. Oggi, infatti, la politica non la fanno più i politici tout court ma i parvenu e gli urlatori.

E Donald Trump, specchio dei tempi che cambiano, non è certo il solo a cavalcare il populismo e ad ammiccare all’autoritarismo. Anche in Europa i populisti sono premiati un po’ ovunque, sia di destra che di sinistra. Da Marine Le Pen a Viktor Orban, da Nigel Farage a Beppe Grillo, da Alexis Tsipras a Jeremy Corbin, i risultati delle ultime tornate elettorali nelle principali democrazie occidentali premiano oltre ogni ragionevole previsione le personalità antisistema e talvolta antidemocratiche.

Così, le amministrative in Italia e il prossimo referendum costituzionale sono nient’altro che una sfida per l’affermazione definitiva del populismo sulla democrazia, che ci allontana sempre più dalle formule rappresentative e che ci spinge verso forme blande di autoritarismo.
 

Luciano Tirinnanzi,
Direttore Lookout News (G-Risk company)