Politica

Trattativa Stato Mafia, Di Matteo: "In Italia l’argomento è stato oscurato"

di Antonio Amorosi

Il 17 dicembre a Roma la prima presentazione della nuova edizione del libro “Il Patto Sporco e il silenzio” sulla trattativa Stato-Mafia (ed Chiare Lettere)

Affaritaliani ha intervistato Nino di Matteo già sostituto procuratore di Palermo, oggi consigliere togato del CSM, intervistato ne "Il Patto Sporco e il silenzio" dal giornalista Lodato

Dottor Di Matteo perché una nuova edizione?

"Abbiamo pensato di fare una nuova edizione di questo libro perché in questo Paese ormai determinati argomenti vengono completamente oscurati. Le affermazioni anche della sentenza di appello sul fatto che una parte dello Stato cercò una parte della mafia, cioè il nemico, per sconfiggere un altro nemico mafioso che si riteneva ancora più pericoloso, in un Paese normale dovrebbero scatenare una discussione".

Una discussione pubblica e non solo...

"Sì e anche una discussione politica e a livello giornalistico. Invece in questo Paese si preferisce ignorare perfino le sentenze di assoluzione e abbracciare o far credere che quella sentenza di assoluzione abbia smentito un teorema infondato dei pubblici ministeri. In realtà quella sentenza di appello spiega che i fatti ricostruiti si ritengono provati. In un Paese normale questo dovrebbe diventare oggetto di riflessione, di dibattito perché non si può ignorare la problematicità di un dato affermato in sentenza, di uno Stato che cerca Cosa Nostra per porre fine ad una strategia".

Chiaro. Lei dice vi fu una trattativa tra Stato e mafia e questa non evitò altro sangue ma lo provocò. Ci spiega cosa intende?

"Anche la sentenza di appello che pure ha assolto alcuni degli imputati del reato di minaccia al corpo politico dello Stato, che avevamo contestato sia a mafiosi sia a uomini delle forze dell'ordine sia a uomini politici… dicevo... anche la sentenza di appello nelle sue motivazioni afferma che ci fu un dialogo cercato da alcuni esponenti dello Stato con la parte ‘moderata’ di Cosa Nostra. Era quella componente che faceva capo a Bernardo Provenzano, per cercare di porre fine alle stragi che erano iniziate con la strage di Capaci. Questa sentenza si sofferma tra le altre cose sulla mancata perquisizione al covo di Totò Riina, affermando che si trattò di un chiaro segnale dato sempre alla parte ‘moderata’ di Cosa Nostra, di una disponibilità al dialogo".

Un segnale quindi...

"Sì, questa sentenza arriva ad affermare in maniera chiara che per anni la latitanza di Provenzano fu coperta, la sentenza scrive in modo soft, ma fu coperta dal reparto investigativo dei ROS dei Carabinieri o almeno dai vertici dell’epoca, proprio perché in quel momento si riteneva che fosse strategicamente importante che prevalesse la cosiddetta ‘ala moderata’. Provenzano doveva restare libero per prevalere sull'altra ala più propensa a continuare con le stragi".

Perché se la sentenza dice che questo sia accaduto si sostiene anche che con quella strategia non si evitarono altri spargimenti di sangue ma li si provocarono?

"Anche qui noi ricordiamo ciò che è già consacrato in una sentenza definitiva che ha riguardato il processo per le stragi di Roma, Firenze, e Milano. E cosa dice questa sentenza definitiva? Nella cosiddetta sentenza Bagarella +25 si ricorda come quel dialogo intrapreso con i vertici della mafia da parte dei carabinieri del ROS, aldilà delle intenzioni dei carabinieri del ROS, finì per rafforzare Riina e nella mafia il convincimento che la strategia delle bombe pagasse. Finì per rafforzare l'idea di Cosa Nostra che attraverso le stragi, in particolare quelle del 1993, si potesse ricattare lo Stato e indurlo a cedere sulle richieste più importanti di Cosa Nostra. Quindi anche qui noi ci limitiamo a ricordare quello che è venuto fuori nel processo e quello che è stato ritenuto provato anche in sentenze definitive. Abbiamo uno Stato che non si pone più come nemico di Cosa Nostra ma che cerca un dialogo con Cosa Nostra per ottenere i suoi scopi".