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Sport
"Ecco perché il calcio è un business", parla De Ianni

Nicola De Ianni è docente di Storia economica alla Federico II di Napoli. Ha scritto un libro che parla di calcio, ma non di calciatori: - Rubbettino editore, 2015. Un'analisi storica con cui ripercorrere – numeri alla mano – l’evoluzione di uno sport «che ha vissuto per troppi anni al di sopra delle proprie possibilità», finendo per snaturare se stesso. Ne parla con Affari Italiani.

 

Professore, il calcio è diventato un’azienda votata al business?

«Studiando la storia di questo sport, non c’è nessuna sorpresa. Anzi, è anche logico si arrivasse a questo punto».

Perché?

«Basta analizzare i dati economici delle società fino al 1981 e confrontarli con quelli di oggi. Un esempio: tutto quello che era il Totocalcio, come fonte di entrata, non esiste più. Tutto quello che era il botteghino, cioè gli ingressi, sempre come fonte di entrata, non esiste più. Prima valeva circa il 60%, oggi l’11. Sono entrate nei bilanci delle società voci che prima non esistevano».

Tipo?

«Merchandising, marketing, diritti televisivi, sponsor. Sempre di più il calcio è collegato al denaro, e sempre di più in forme subordinate al denaro. Il fatto è questo: una realtà del genere, di per sé, potrebbe non essere negativa, invece nel calcio è patologica. Lo sport tende a essere dipendente dalle dinamiche economiche».

E’ stato un fenomeno progressivo?

«Sì. All’inizio il calcio, pur avendo al centro il denaro (com’è ovvio), ruotava attorno ad altre questioni. Compensi, trasferimenti, mediazioni non avevano una loro centralità. Oggi, invece, per fare un altro esempio, il contratto di un calciatore è pluriennale, non esiste il vincolo del cartellino, e le società guadagnano sui trasferimenti molto più di prima. E’ un modello che ha nuove priorità, ma che fa intravedere distorsioni di fondo».

Lei nel suo libro parte dal 1898 – anno di fondazione della FGIC – e conclude nel 1981 – dopo lo scandalo calcioscommesse e prima dei mondiali di Spagna. Insomma, individua il mutamento non negli ultimi 10-20 anni, ma in tutto un secolo passato.

«Nel volume parto dal 1898 perché volevo constatare se il denaro fosse strutturalmente legato al calcio, oppure no. E ho potuto verificare, numeri alla mano, che è presente fin da quella data nel mondo calcistico. Ma con caratteristiche diverse, appunto. Dal 1898 a oggi il cambiamento c’è stato. E radicale: prima si parlava di uno sport, oggi di uno spettacolo, di una manifestazione».

Che cosa si sta perdendo?

«Il calcio dovrebbe essere passione, competizione, agonismo. Ma si sta allontanando dalle sue origini: vogliamo parlare degli effetti che producono in Italia i diritti televisivi?».

Parliamone.

«I diritti televisivi, in Inghilterra, sono suddivisi con un rapporto preciso in base alla classifica della Premier League: per risorse elargite ai club, tra la prima e la ventesima c’è una differenza massima del 100%. La prima squadra potrà avere non più del doppio del denaro dell’ ultima, per capirci. In Italia è diverso. Le nostre “piccole”, che retrocedono in Serie B, prendono circa tra i 14 e i 16 milioni di euro. La prima in classifica ne prende 145: il rapporto è di uno a dieci, altro che doppio».

Si mette in discussione la competitività?

«Quando una squadra retrocede, o non ottiene risultati di rilievo, dovrà per forza vendere giocatori o non investire per rientrare nelle spese. Insomma: Juventus, Roma e Napoli (prima, seconda e terza di quest’anno) la prossima stagione andranno a vincere contro squadre assolutamente non competitive. Inoltre, il pacchetto dei diritti televisivi ha il suo valore di mercato nel numero di partite giocate durante l’anno. E su questo punto non si fa l’unica cosa di buon senso».

Quale?

«Ridurre il campionato a 18 partecipanti, anziché 20: perché gli introiti sarebbero suddivisi tra meno squadre. E la spartizione sarebbe più equa. Si ridurrebbe l’enorme differenza tra squadre di vertice e squadre di coda. Questo è motivo di scontro all’interno delle Lega Calcio, che è un organismo anomalo e poco trasparente: le piccole protestano, ma le grandi – spesso divise su altri temi – fanno fronte comune. I grandi presidenti litigano fra loro per la ripartizione dei diritti tv ma poi sono tutti d'accordo contro le piccole società».

Durante gli anni da lei studiati, c’è stata anche una mutazione delle figure che ruotano e lavorano attorno al calcio?

«Certo. Già dagli anni ’70 i presidenti diventano proprietari di società per azioni e non sono più presidenti di associazioni. Questa è una profonda differenza con il passato. Oppure, si pensi agli allenatori: prima svolgevano un ruolo di accompagnamento, coordinamento, erano tecnici; oggi sono dei manager che intervengono anche dal punto di vista economico. E’ aumentato lo staff (preparatori, collaboratori, ecc.), è aumentata la rosa (prima erano 15 giocatori, oggi 25). E sono cambiate anche le figure intermedie: non c’è più, o ha un ruolo marginale, il direttore sportivo. C’è il direttore generale: che è omologo e analogo a quello di una qualunque grande azienda. E in ultimo c’è da rilevare un'altra situazione attuale».

Cioè?

«Che questi dirigenti, a più livelli e di più funzioni, non provengono dal mondo del calcio: Marco Fassone, per fare un nome, negli ultimi anni ha lavorato per quattro delle principali società italiane (Juventus, Napoli, Inter e ora Milan). Fassone viene dalla Perugina, è una figura tecnica, con conoscenze industriali e non calcistiche. Una volta i dirigenti erano i Giancarlo Antognoni (ex calciatori e poi dirigenti, in questo caso per la Fiorentina), che smettevano di giocare e venivano investiti di un ruolo all’interno alla società. Oggi non più».

Lei sottolinea l’importanza di Artemio Franchi.

«Franchi, che ha diretto ai massimi livelli il calcio nazionale e internazionale, è morto, nel 1983, denunciando l’andamento che si stava prendendo, i mali economici che avrebbero afflitto questo sport. Aveva intuito quello che poi è successo».

E che è successo, poi, negli anni ’80?

«Il calcio italiano ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Fatturava molto, e spendeva sistematicamente di più di quanto si ricavava. Un periodo, specie dopo l’avvento di Berlusconi, in cui la competizione si fa con il denaro: più si spende e più si vince. Berlusconi inizia con il Milan nel 1986, fa un investimento a fondo perduto nel calcio. Crea dal nulla una forza economica, con relativo ritorno anche in termini di notorietà personale. E costringe gli altri ad adattarsi, per colmare il gap. E così prima il Napoli (che vince ma si indebita), poi il Parma e la Lazio (che non finiscono bene) e poi la Roma di Sensi (che finisce, anche con la sua impresa petrolifera, in mano all’Unicredit) cambiano modello economico. Un modello per cui, però, l’Italia non era ancora pronta».

E poi?

«Il risultato? Nei primi 10-15 anni di questo secolo il calcio italiano, in precedenza tra i primi al mondo, è in quarta o quinta posizione».

Il tempo delle bandiere è finito?

«Sì. Non esiste più. E l’addio di Totti ce lo ricorda, nient'altro. E’ un calcio antieconomico che non ritornerà. Il pubblico che impone la logica della bandiera guarda indietro con disincanto. Io sono ottimista: il calcio italiano può recuperare in alcuni settori, e migliorare. Ma si parla in termini di conti, non di bandiere».

 

twitter11@Simocosimelli

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