Culture

"Mio padre scriveva i decori funebri: così io combatto la morte con le parole"

Di Lucrezia Lerro

Membro della Società Milanese di Psicoanalisi e direttore dell’Irpa, lo psicoanalista Massimo Recalcati racconta su Affari le sue fatiche letterarie più celebri

La poesia, i riferimenti poetici, non mancano mai nel suo lavoro di saggista. E’ così? Quanto è importante per la sua scrittura la parola poetica?

La parola poetica è un taglio verticale. Come quello che Fontana imprime sulla tela. Un taglio netto che apre alla possibilità di una nuova percezione delle cose. E’ quello che accade anche nell’esperienza dell’analisi: la parola dello psicoanalista non è una parola di consolazione ma un taglio che apre, un colpo, un urto. Non è la parola della comunicazione e del dialogo, ma la parola che, come accade con quella poetica, apre ad un'altra visione delle cose.

Sembra che spesso la letteratura, gli scrittori, arrivino a toccare, o ad individuare, il cuore di questioni che sono il territorio specifico ed elettivo dell’indagine psicoanalitica…

In generale tutti gli artisti, come diceva già Freud, anticipano gli psicoanalisti. Hanno la capacità di toccare il reale. Il reale del sesso, della vita e della morte, il reale della verità che sfugge.

Molti psicoanalisti hanno percorso anche la strada della scrittura creativa. Pare che ci sia un legame, una sorta di “alchimia” che unisce l’una all’altra. “Alchimia” che ritrovo nel suo potente testo teatrale “Amen”. Che ne pensa?

Da ragazzo volevo fare il poeta o, più precisamente, dedicarmi alla drammaturgia. Scrivere di teatro. Ho archiviato questa passione giovanile per dedicarmi alla psicoanalisi. Nel tempo del lockdown ho avuto il tempo per tornare a scrivere un testo teatrale. Anche “Amen”, come l’opera di Parmiggiani e quella a me molto cara di Beckett, sorge dalla polvere e dalla cenere. Ma in fondo anche la psicoanalisi non si occupa che di polvere e di cenere… di resti, di quello che resta, di cosa possiamo fare coi nostri resti e coi resti che noi stessi siamo.

Vorrei soffermarmi brevemente sulla qualità della scrittura, che è precisa e allo stesso tempo fluida. Quanto ha lavorato sulla grana della scrittura di “Amen”? 

Avevo iniziato da tempo a prendere degli appunti. Deve sapere che per occuparmi di psicoanalisi ho abbandonato in modo definitivo il teatro. Da ragazzo vivevo di pane e teatro. Poi di colpo ho abbandonato. Succede solo coi grandi amori. Non sono possibili compromessi, frequentazioni incerte, si può solo tagliare nettamente… ma la lingua di “Amen” è anche figlia di quella prima stagione della mia vita. Poi c’è tutto il lavoro dello psicoanalista. L’ascolto delle lingue di coloro che mi hanno parlato in questi trent’anni. 

“Amen” mi pare articolato secondo la classica struttura del “racconto” esistenziale: potrebbe raccontarci da che cosa nasce questa necessità?