Economia

Il dollaro non spaventa Corporate Usa. Azioni, bond e Emergenti: cosa cambia

L'economia a stelle strisce gode di buona salute. La decisione della Federal Reserve sul costo del denaro rappresenta che inverte la rotta di politica monetaria dopo quasi dieci anni rappresenta anche un'iniezione di fiducia nell'economia statunitense che, pur non correndo, gira. E gira più velocemente delle altre economie avanzate. La stretta di un quarto di punto, la prima dal 2006, rafforza il dollaro, che dal 2014 si è già apprezzato del 24% rispetto alle principali valute. Una corsa che non sembra destinata ad arrestarsi, soprattutto nei confronti dell'euro, indebolito anche dagli stimoli della Bce. Il caro dollaro pesa sull'inflazione, che resta lontana dall'obiettivo del 2% della banca centrale americana.

Ma la Fed, con la su decisione presa all'unanimità, sembra mettere in evidenza che Corporate America puo' sopportare anche un biglietto verde forte, che rende i prodotti Made in Usa piu' costosi all'estero. Pesa sull'inflazione, ma e' ritenuto un fenomeno temporaneo, il crollo del petrolio. Lo stesso presidente della Fed, Janet Yellen, si dice ''sorpresa'' dall'ulteriore calo delle quotazioni. Il greggio e' in calo di oltre il 4,55% a poco piu' di 35 dollari, appesantito dalle scorte americane di petrolio piu' sostenute delle attese. Un calo che pero' non condiziona l'America, che si appresta dopo decenni a rimuovere il divieto di esportare greggio. I leader del Congresso hanno infatti raggiunto un accordo al riguardo che dovrebbe essere approvato a breve. Con la rimozione del divieto, ulteriore petrolio inondera' il mercato, mettendo probabilmente ulteriori pressioni al ribasso si prezzi.

''I prezzi del petrolio devono stabilizzarsi'', mette in evidenza Yellen, dicendosi fiduciosa sul fatto che l'inflazione, nonostante il dollaro e il petrolio, salira' nel medio termine al 2%. ''Ritengo le aspettative di inflazione ben ancorate. Monitoriamo i prezzi da vicino'', spiega ancora Yellen, il presidente della svolta della Fed che ha messo fine all'era del denaro a costo zero. L'economista cerca di mostrare sicurezza nel rassicurare i mercati e nello spiegare le mosse della Fed. Si dice sicura sui fondamentali dell'economia americana, sui progressi ''considerevoli'' del mercato del lavoro e sul ritorno dell'inflazione al 2%. E sulla capacità dell'economia americana di resistere agli ''effetti transitori'' di dollaro e petrolio. Insomma, non teme una nuova recessione. ''Abbiamo tassi ancora bassi e abbiamo fatto una mossa molto piccola'', afferma, sottolineando che la Fed intende muoversi in modo graduale per scongiurare rischi. L'economia infatti cresce ma non corre. E solo in due altre occasioni la Fed ha aumentato i tassi di interesse a fronte di un pil sotto il 4,5%.

Ma oltre alle valute, qual è l'impatto macro che avrà la fine dell'era dei tassi a zero negli States? Per quanto riguarda il mercato azionario, la banca svizzera Credit Suisse nota che il primo innalzamento dei tassi da parte della Fed ha storicamente generato una correzione azionari del 7% circa, ma non ha mai marcato la fine di una fase espansiva dei listini. A sei mesi dalla stretta monetaria, infatti, in media i listini si sono trovati il 2,2% sopra il livello che avevano raggiunto prima che la Banca centrale Usa si muovesse. Sul fronte dei tassi d'interesse obbligazionari, la previsione per il rendimento dei decennali americani è di una crescita al 2,7 e poi al 2,95% a metà e quindi alla fine del prossimo anno. Per altro, proprio i fondi che investono in prodotti high yeld (ad alto rendimento, ma con grandi rischi), sono al centro di una crisi che ha portato alcuni operatori del settore a pochi passi dall'andare gambe all'aria. In genere, comunque, una stretta della politica monetaria è vista come favorevole ai bond. Non bisogna però dimenticare che la decisione arriva in un contesto ancora anomalo, con il bilancio della Fed e della Bce cresciuto esponenzialmente a seguito dei rispettivi Quantitative easing: insomma, sul mercato c'è ancora tanta liquidità in cerca di collocazione che contribuisce a creare incertezza.

Anche i mercati emergenti guardano con interesse e tanta preoccupazione a quanto accade a Washington. Già in una fase difficile per le loro economie, i Paesi in sviluppo sono stati colpiti dall'incertezza sull'effettivo aumento o meno dei tassi. Per certi versi, dunque, una decisione rimuove questo loro 'esser sospesi', come annota Edwin Gutierrez di Aberdeen AM. Il grande timore però riguarda la sostenibilità del loro debito, espresso in dollari e quindi suscettibile di un appesantimento con un rafforzamento del biglietto verde. "Ma se la Fed alza i tassi in linea con le aspettative, non ci sarà nessun impatto sensibile sul debito dei mercati emergenti". Anche sulla prospettiva inflattiva di quei Paesi, le cui monete si sono fortemente svalutate, "ci sono segnali che il loro tessuto economico ha fatto importanti passi avanti: la maggior parte dei Paesi ha saputo controllare l'inflazione, riguadagnando competitività". Gli economisti di Nordea condividono la riflessione, definendo quel novero di Paesi "molto meno vulnerabili" rispetto alle crisi degli anni Ottanta e Novanta, anche perché hanno riportato un bilanciamento nelle loro partite con l'estero, mentre il debito delle compagnie non finanziarie (che ad esempio in Cina rappresenta il 150% del Pil su un 225% di indebitamento totale) è espresso in valuta locale.

Alcuni dubbi sulla reazione degli emergenti, però, sorgono se si pensa al fatto che l'aumento dei rendimenti dei titoli obbligazionari in dollari potrebbe portare gli investitori a puntare su quelli, con i capitali che lascerebbero così proprio gli emergenti premiati in tempi di bassi rendimenti altrove. Per i Paesi esportatori in euro, come l'Italia, la speranza è invece che la debolezza della moneta unica dia spinta ulteriore all'export.