Economia
La vera sfida di Trump? La Cina. Ecco come Pechino si difenderà
La Trumpnomics può fare bene ai settori ciclici di Wall Street per ora, ma mette a rischio i bond e la crescita mondiale a medio termine
Donald Trump fa subito scintille col Messico, proponendo che sia il paese centramericano a pagare la costruzione (o meglio il prolungamento, visto che esiste sin dai tempi dell’amministrazione Clinton) del muro di confine tra i due paesi, il cui costo è stimato tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Ma se “the Donald” può per ora fare spallucce delle proteste del suo collega Enrique Pena Nieto, che ha annullato la visita di stato prevista per il prossimo 31 gennaio a Washington, più delicato è il rapporto con Pechino. Nei confronti del Messico gli Usa hanno scambi commerciali per circa 500 miliardi di dollari all’anno: nei primi 11 mesi del 2016 hanno infatti esportato beni per circa 216 miliardi contemporaneamente registrando importazioni per quasi 276 miliardi, con un deficit di una sessantina di miliardi abbondante.
Nei confronti della Cina le cifre non sono molto dissimili nel complesso, visto che nei primi 11 mesi del 2016 gli Usa hanno esportato per 104 miliardi, importando beni per oltre 423 miliardi, con un deficit, questo sì molto diverso, di quasi 320 miliardi. In compenso la Cina è seconda solo al Giappone tra i grandi detentori di titoli di stato americani: a fronte di 14.403 miliardi di dollari di titoli di stato in circolazione a fine novembre, Tokyo ne deteneva 1.108 miliardi di dollari, Pechino 1.049 miliardi, vale a dire più del triplo del disavanzo commerciale di Washington nei confronti della Cina, mentre il Messico, con 47,7 miliardi è il 24esimo “creditore” internazionale degli Usa e i suoi investimenti non coprono neppure il deficit commerciale annuo che gli States accusano nei suoi confronti.
Finora, nonostante periodici “avvertimenti”, tanto il Giappone quanto la Cina hanno continuato a far crescere i loro investimenti in titoli di stato in dollari, tanto che Pechino dal 2007 ha superato la Gran Bretagna (che negli anni è poi calata all’ottavo posto con poco meno di 212 miliardi di titoli detenuti) come secondo maggior detentore di T-bond. Alle spalle di Giappone e Cina, a parte il caso del Brasile (quinto con 258 miliardi di T-bond in portafoglio) vi sono una serie di paesi dove operano fondi hedge e fondi comuni, come l’Irlanda, le isole Cayman, la Svizzera e il Lussemburgo, tutti tra i 275 e i 221 miliardi di titoli detenuti, mentre al nono e decimo posto vi sono Hong Kong e Taiwan (185 e 183 miliardi rispettivamente).
Dal momento che, come nota Didier Saint-George, managing director e membro del Comitato Investimenti di Carmignac, il programma economico del neo presidente Usa non è né incoerente né imprevedibile, rappresentando semmai una forma molto rigorosa (o ottusa, a seconda dei punti di vista) di mercantilismo, destinata a riaccendere le tensioni inflazionistiche e le tensioni geopolitiche in misura direttamente proporzionale all’effettivo supporto a vecchi settori industriali non competitivi, attraverso l’utilizzo di barriere tariffarie, se Trump proverà a mostrare i muscoli anche con Pechino, il rischio è che si scatenino nuove guerre commerciali e valutarie che i mercati finora non scontano.
(Segue...)