Economia

Le “distrazioni” di Elkann e il ritornello sullo Stato che deve pagare

di Marco Scotti

Sembra che il solo legame tra Stellantis e il nostro Paese sia il conto finale, quello che pagheremo noi cittadini, mentre le strategie e i profitti volano altrove

Consolidamento o licenziamenti? L'Italia rischia di essere ancora una volta il salvadanaio di Stellantis

Mentre Tavares lascia intendere che i licenziamenti siano un’opzione sul tavolo e Elkann liquida il consolidamento come una “distrazione”, si ha l’impressione di assistere all’ennesima ripetizione di una storia già vista. George Santayana ci ha avvertiti: “Chi dimentica il proprio passato è condannato a ripeterlo.” E proprio di questo sembra trattarsi, perché il copione è sempre lo stesso: si chiede al Paese di sostenere la trasformazione di Stellantis come se l’Italia fosse un salvadanaio senza fondo, da svuotare a piacimento.

Il consolidamento, per chi non mastica il gergo aziendale, significa concentrare le risorse e ottimizzare le operazioni. Suona bene, se non fosse che spesso si traduce in tagli, riduzione di stabilimenti e, inevitabilmente, perdita di posti di lavoro. E quando si parla di Stellantis, si vagheggia di una fusione con Renault che porterebbe sì alla creazione di un campione mondiale, capace di competere con Toyota e Volkswagen: ma a che prezzo? L’efficienza, ormai l’abbiamo capito, si paga sempre sulla pelle dei lavoratori. Eppure, mentre i vertici di Stellantis chiedono fondi al governo italiano, non sembrano voler garantire nulla al Paese che per decenni ha sostenuto la vecchia e decotta Fiat.

Elkann parla di distrazione, quasi come se il mantenimento dell’occupazione e della produzione in Italia fosse un peso, un impedimento a giocare su palcoscenici più remunerativi. Ma allora perché si continua a bussare alle porte di Roma? Sembra che il solo legame tra Stellantis e il nostro Paese sia il conto finale, quello che pagheremo noi cittadini, mentre le strategie e i profitti volano altrove.

La domanda allora è semplice, ma non retorica: quante altre volte l’Italia dovrà aprire il portafoglio senza vedere un ritorno? Quanto sangue devono ancora spremere da noi per una transizione che ci lascia solo le briciole? I lavoratori, il sistema produttivo, cosa ci guadagnano? O dobbiamo semplicemente rassegnarci all’idea che Stellantis e il Paese abbiano ormai poco in comune, che i nostri stabilimenti siano solo pedine sacrificabili in una scacchiera globale?

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L’impressione, spiace dirlo, è che siamo davanti a un déjà vu amaro. Come in una vecchia fotografia ingiallita, la storia si ripete. I grandi gruppi industriali, nati e cresciuti in Italia, guardano altrove e chiedono al Paese di pagare il conto senza ricevere in cambio né un impegno, né un futuro. John Elkann, ormai è chiaro, rinuncerebbe volentieri al mondo dell’auto per concentrarsi su altri settori con migliore marginalità: biomedicale, lusso, intelligenza artificiale. C’è da scommetterci che la transizione di Exor (che nulla ha a che vedere con quella dell’automotive) subirà un’accelerata nei prossimi mesi, specie se il governo dovesse rifiutarsi di sostenere ulteriormente l’azienda.