Esteri
Trump? Finora ottimo asset per la Cina. E ora anche Biden diventa un "falco"
La pandemia da coronavirus rende la Cina un tema fondamentale nelle presidenziali. Post voto i modi potrebbero cambiare, ma gli obiettivi Usa no
"E alla fine, se lo facessimo, che cosa succederebbe? Risparmieremmo 500 miliardi di dollari se troncassimo del tutto le relazioni". A parlare così, qualche giorno fa, è stato Donald Trump. Minaccia reale o elettorale, si vedrà. Quello che è certo è che il rapporto tra Stati Uniti e Cina ha toccato il punto più basso degli ultimi decenni, quantomeno da Tiananmen (non a caso evocata in un report interno a Pechino nelle scorse settimane).
Per anni si è parlato di guerra commerciale, quando la realtà celava quantomeno una guerra tecnologica che si è poi estesa anche a livello diplomatico e strategico. Fino a qualche mese fa si poteva pensare che la minaccia di decoupling sarebbe stata scongiurata e si riconduceva il tutto all'approccio ruvido del presidente statunitense e alle crescenti ambizioni di Pechino. Anzi, all'inizio dell'epidemia da coronavirus, quando il Covid-19 sembrava riguardare solo la Cina, si era intravisto qualche spiraglio di cooperazione, con Trump che aveva lodato a più riprese la gestione del suo "amico" Xi Jinping.
Poi tutto è cambiato. La pandemia è arrivata negli Stati Uniti, e il governo federale ha dimostrato di non saperle gestire nel migliore dei modi. Inevitabile che Trump, nell'anno delle elezioni, riaccendesse la retorica anti cinese. Individuare in Pechino la causa dei mali pandemici, inizialmente bollati come semplice influenza, offre al presidente un tema da provare a sfruttare in campagna elettorale, al posto di un ipotetico accordo commerciale che ora appare quantomai improbabile.
Ecco allora il "Chinese virus", più recentemente la "peste dalla Cina", nonché le accuse, per ora non suffragate da alcuna prova, sull'origine artificiale del Sars Cov-2 o sul tentato furto di informazioni sullo sviluppo del vaccino. Accuse, in parte favorite dalla scarsa trasparenza cinese, che hanno come effetto collaterale il far passare in secondo piano i temi gestionali e comunicativi durante le prime fasi del contagio, e il creare una polarizzazione. Washington, e in parte anche Pechino, sembrano voler chiedere ad alleati e partner di prendere posizione: o state con noi o contro di noi. Dinamica che si può vedere all'opera anche in Italia.
Gli effetti ci sono anche sulla stessa campagna elettorale americana. Non solo sulle posizioni di Trump, ma anche su quelle dello sfidante Joe Biden, che teme di passare per quello "morbido sulla Cina". Non è certo un caso che le prime campagne repubblicane in vista del voto abbiano ribattezzato il democratico "Beijing Biden", mostrandolo mentre stringe la mano a Xi Jinping con una voce fuori campo che recita: "La Cina sta uccidendo il nostro lavoro e ora uccide anche la nostra gente". E un memo di 57 pagine inviato dal partito a tutti i candidati sparsi per il paese li invita a "non difendere Trump ma ad attaccare la Cina". Il significato è evidente: spostare l'attenzione dalla gestione della Casa Bianca e concentrarla su un attore esterno individuato come ostile.
In passato Biden, considerato da SupChina un "Panda Shrugger" (dunque un candidato che dà segnali contrastanti in materia di Cina), aveva dichiarato che la Cina "è una seria minaccia, ma gestibile. Non serve essere troppo duri con la Cina". Il candidato moderato dei Dem, ora in grande vantaggio sul rivale, è un profondo difensore del libero commercio e della globalizzazione. E' stato in Cina nel 2013 insieme al figlio Hunter, che ha fatto parte del board del fondo di investimento cinese BHR di Shanghai, prima di fare un passo indietro per non azzoppare la campagna del padre.
Di recente, però, il candidato democratico ha cambiato linea. Nel dibattito del 25 febbraio, Biden ha fatto riferimento alla questione degli uiguri e ha criticato il governo cinese per la gestione delle proteste di Hong Kong. L'insistenza sui "diritti umani" si è fatta molto più presente nei discorsi di Biden, che è stato anche il primo candidato alle primarie democratiche a congratularsi con Tsai Ing-wen dopo la vittoria alle elezioni taiwanesi dello scorso gennaio.
Una campagna democratica di qualche settimana fa mette in sovrimpressione le immagini di medici cinesi con quelle di una fila di americani in coda per il virus. C'è chi se l'è presa, parlando di favoreggiamento alla sinofobia. Biden ha capito che sulla Cina ci si giocano molti voti (considerando che l'opinione pubblica su Pechino è la più bassa degli ultimi 15 anni) e ha attaccato Trump per i complimenti indirizzati a Xi.
Ma quale sarebbe il presidente a colpire di più gli interessi globali della Cina? Trump ha da subito assunto una linea aggressiva con la Cina. L'obiettivo di fondo, contenere l'ascesa cinese, resta sempre lo stesso già individuato da Barack Obama. Ma le modalità sono state del tutto diverse dal pivot to Asia. Niente intesa transpacifica, messa in discussione delle organizzazioni e delle alleanze internazionali, dalla Nato all'Oms, focus sul tornaconto economico e commerciale. Il leitmotiv è quello che guida la politica estera di Trump a tutte le latitudini: basta farsi fregare.
Un approccio che, finora, ha favorito la Cina. Gli Stati Uniti trumpiani hanno lasciato dei vuoti, dall'Asia al Medio Oriente, dall'Africa all'Europa, che il gigante asiatico ha provato, spesso con successo a riempire. Basti pensare all'adesione dell'Italia alla Belt and Road nel marzo del 2019. Trump ha pensato che il disimpegno e l'America First potessero corrispondere meglio agli interessi di Washington, conscio del fatto che nel momento in cui avrebbe messo i partner tradizionali di fronte a una scelta di campo questi lo avrebbero seguiti senza esitare. Il momento di quella scelta potrebbe essere arrivato, ma in un momento nel quale la credibilità degli Stati Uniti ha perso qualche punto.
Biden appartiene all'altra scuola di pensiero, quella secondo cui sono proprio le alleanze e le organizzazioni internazionali a servire al meglio gli interessi americani. Ecco perché, se diventasse lui presidente, ci si potrebbe aspettare un riavvicinamento ai partner europei e un tentativo di rimettere in piedi quell'alleanza indo-pacifica che è rimasta solo sulla carta. Certo, bisogna vedere se, passati gli anni, sarà possibile operare nella stessa maniera o se invece il mandato di Trump e la pandemia avranno cambiato gli equilibri di forza, in Asia e non solo.
Trump ha lasciato che Corea del Sud e Giappone si incanalassero su una trade war in miniatura, ha assistito (anzi incoraggiato) alla Brexit, ha imposto dazi ai prodotti europei ed è entrato in rotta di collisione con la Germania di Angela Merkel, in particolare sul gasdotto Nord Stream 2 con la Russia. Ha assistito alla penetrazione cinese in Medio Oriente, non solo in Iran ma anche sul Golfo e nelle monarchie saudite, area tradizionalmente benevolente con Washington.
Biden avrebbe di certo un stile meno ruvido di quello di Trump, basato più sull'engagement che non su accuse e minacce, ma l'obiettivo di fondo rimarrebbe sempre quello: contenere la Cina. A Pechino lo sanno, tanto che un editoriale del Global Times nelle scorse settimane avvertiva il paese di prepararsi a "una sfida a lungo termine", a prescindere da chi siederà alla Casa Bianca nel 2021.