Libri & Editori

Leonard Cohen, Marianne Ihlen e quelle strane storie sull’isola di Hydra

di Federico Faloppa

Leonard Cohen e Marianne Ihlen, a cinque anni dalla morte, un libro, un’intervista e uno spettacolo: Un amore a Hydra, intervista a Tamar Hodes

E in effetti la sinestesia, la combinazione di più sensi (olfatto, gusto, vista) nelle tue descrizioni ritorna spesso… Ma parliamo dei temi del tuo libro.

Si può leggere in molti modi, il testo. Ci sono le storie d’amore, certo. La storia d’amore tra Leonard Cohen e Marianne, innanzitutto. Ma anche quella tra mia madre e mio padre, o tra gli altri protagonisti. E sono storie che non sempre finiscono bene, tutt’altro. Ai miei genitori quel periodo sull’isola non portò fortuna, ad esempio: vi si recarono con l’idea di mettere una pezza al loro matrimonio, già in crisi, e da quell’esperienza uscirono divisi, allontanandosi irrimediabilmente. Poi c’è la storia delle varie comunità che popolarono l’isola: quella degli scrittori, pittori, scultori, musicisti, creativi soprattutto stranieri (statunitensi, canadesi, inglesi, scandinavi, israeliani, ecc.) che raggiunsero Hydra con l’idea di trovare un loro spazio, il loro locus amoenus, e di fondare la loro comunità. Anzi, di essere liberi di esprimersi come volevano. Vi sono gli abitanti greci dell’isola, che con questi artisti interagirono tollerandoli, aiutandoli, lavorando per loro. Poi c’è la storia dell’isola nel contesto della Grecia di quegli anni lì: gli anni della dittatura dei colonnelli.

Un continuo leit motif del libro mi sembra, appunto, il rapporto tra gli artisti stranieri da un lato e i ‘locali’ dall’altro…

È un rapporto che mi ha affascinato molto, e che in qualche modo fa emergere anche il motivo più politico del libro: artisti sognatori di estrazione borghese da un lato, e osti, cameriere, portantini, artigiani dall’altro. Non è un caso che ho dedicato il libro proprio a questi ultimi. Sono le persone di cui si sa meno, quelle che interessano meno, che vivono – anche nella fiction narrativa – in funzione di quegli altri, nell’ombra, sullo sfondo. Eppure senza di loro, senza il loro lavoro materiale e pratico gli artisti non avrebbero potuto fare gli artisti. Senza la sua cameriera che si occupava di tutto, Cohen non si sarebbe potuto dedicare completamente alla sua poesia, alla sua musica. Esaltiamo – giustamente – il genio di quelli come Cohen, ma ci dimentichiamo che quel genio si è potuto esprimere perché aveva le condizioni, anche materiali, per poterlo fare. 

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Visto che ne stiamo parlando, ti provoco con una mia sensazione: la sensazione che ci sia una specie di mentalità coloniale in quegli artisti. Magari non consapevole, ma certamente figlia della loro condizione, del loro tempo…

Forse è così. Gli artisti protagonisti del libro hanno una loro mentalità se non coloniale certamente ‘di classe’, anche se non la esprimono in modo esplicito, discriminante: usano l’isola, e i loro abitanti, funzionalmente a quello che vogliono fare: pensare, scrivere, dipingere, vivere la loro libertà. Sembra un paradosso ma non lo è: erano lì per sentirsi liberi, ma la loro libertà aveva bisogno del lavoro – spesso sottopagato – di altre persone per potersi realizzare. Erano, loro, tutti figli di professionisti, provenivano quasi sempre da famiglie benestanti, di classe medio alta. E per questo potevano aspirare ad avere un’esistenza meno sottoposta a regole, costrizioni, obblighi. E io non li biasimo affatto, per questo: anzi, hanno provato a non farsi ingabbiare dagli schemi sociali dei loro genitori, delle loro famiglie, che li avrebbero voluti professionisti, avvocati, industriali. Hanno provato a uscire dagli schemi, a farsi la loro vita, a cercare una loro libertà e felicità in un luogo altro. Ma poi avevano la loro servitù, case da affittare o acquistare su Hydra per un decimo di quanto avrebbero pagato in qualsiasi altro posto. Avevano chi lavorava per loro a poco prezzo, potevano dedicarsi all’arte perché non avevamo molte altre incombenze. Erano certamente di sinistra ma… a loro modo classisti: vedevano il mondo con il loro sguardo ‘di classe, con lo sguardo di chi, certe cose, le poteva dare per scontate. Anche – diremmo oggi – sul piano dei rapporti di ‘genere’. Le donne c’erano, eccome: ma erano madri, amanti, muse. Tutto, o quasi, ruotava intorno agli uomini. Come Marianne ruotava intorno a Cohen, dopo tutto…

Parliamo di Marianne, allora…

Marianne era bellissima, infelice – quando la conobbe Cohen – misteriosa, luminosa. Era la donna ‘funzionale’ per eccellenza: prima come madre, per suo marito Axel, poi come musa, per Leonard Cohen. Lei c’era, con la sua intelligenza, il suo intuito, la sua caparbietà: ma erano gli uomini a essere il centro creativo, a trarre energie da lei. E infatti Marianne non ha mai trovato una propria vera voce, come artista. Marianne era la proiezione della poesia e dell’ispirazione di Cohen: lui il genio, lei al suo fianco. Intendiamoci: Marianne scelse quella relazione, e per diversi anni fu felice di essere la compagna di Leonard Cohen, il quale anche grazie a lei poté scrivere quello che scrisse, trovare la propria cifra, il proprio linguaggio.