Libri & Editori
Leonard Cohen, Marianne Ihlen e quelle strane storie sull’isola di Hydra
Leonard Cohen e Marianne Ihlen, a cinque anni dalla morte, un libro, un’intervista e uno spettacolo: Un amore a Hydra, intervista a Tamar Hodes
Eppure nel romanzo ci sono donne che trovano una loro voce…
Alcune di loro, sì. Ma sempre in un quadro sostanzialmente maschile. Se un uomo si ubriacava, andava in escandescenze, rompeva qualcosa, in quella comunità, nessuno diceva nulla; se lo faceva una donna, allora era un’isterica, non era una buona madre, era un’infelice. I rapporti di forza, anche all’interno di quella comunità sognante, apparentemente libera, creativa, erano tutto sommato gli stessi che si trovavano all’interno della società di quegli anni. E questo è un altro paradosso, viste le premesse su cui si sarebbe dovuta fondare quell’esperienza…
Premesse di libertà, appunto: di una vita alternativa possibile, di un sogno di felicità realizzabile, se non a livello collettivo almeno a livello individuale.
È questo il punto, forse. Artisti sì, ma molto indulgenti con se stessi. Coppie creative sì, ma tutto sommato borghesi in termini di relazioni tra i sessi. Genitori liberi sì, ma molto egoisti, molto disattenti nei confronti dei loro figli, lasciati spesso da soli, perché prima venivano le discussioni fino a notte fonda sull’arte e la poesia, le liti, i tradimenti, lo spazio per la propria creatività. Ecco, i figli: furono loro a soffrire molto, come successe al figlio di Marianne, che fu anche internato durante la sua giovinezza. E poi, sai, a chi ebbe successo – come Cohen – si giustificò tutto. Ma per chi, tra quegli artisti, fallì la sconfitta fu doppia: l’insuccesso artistico, appunto, e non di rado la sconfitta personale, familiare. Ci furono, eccome, anche i perdenti: e con loro la vita, e la gente intorno a loro, non furono molto indulgenti…
Sembra un giudizio molto tagliente, il tuo.
In realtà non lo è. Tentarono di farsi una vita loro, diversa: degli artisti che non facevano male a nessuno se non – forse – a loro stessi. Dicevamo del loro rapporto con gli abitanti dell’isola: funzionale, certo. Ma non per questo non nacquero amicizie profonde. E poi loro erano altrettanto funzionali alla vita degli isolani: non solo per i soldi con cui alimentavano l’economia di Hydra, ma anche per quella ventata di novità, stranezza, cosmopolitismo che portavano nella Grecia degli anni Sessanta: quella del regime dei colonnelli, non dimentichiamocelo. Ecco, loro non erano certo criminali: sognatori, con la testa per aria, immersi in loro stessi, ma non commisero mai nulla di illecito. Anzi, provarono una loro via, una loro via alternativa, a quel mondo diviso in blocchi, in quell’Occidente che stava riducendo a merce anche le idee, l’arte, la cultura e la contro-cultura. Il mondo, lì fuori, produceva giunte militari, consumismo acritico, società dello spettacolo. Loro al massimo producevano vite sregolate – le loro, quelle dei loro figli – e, quando però andava bene anche artisti geniali come Cohen. Che da quell’ambiente trasse molto, per sé e le sue canzoni. Io non li critico, infatti, né li biasimo. Ne racconto la storia per quello che fu, con sue contraddizioni ma anche coi suoi slanci ingenui, creativi, passionali. Non si preoccupavano di nulla, vivevano quasi senza piani, alla giornata: come i miei genitori, quando arrivarono a Hydra.
Eppure c’è qualcosa che va oltre le apparenze, mi sembra. Il libro è disseminato di presenze, segni simbolici. Simbolica la presenza sull’isola del monastero di San Giovanni, solo evocato ma forte, potente. Simboliche alcune ripetizioni, quasi formulaiche, certamente enigmatiche: penso ad alcuni dialoghi, ad alcune frasi dello stesso Cohen, ad alcune descrizioni. Simbolico un sincretismo tra religioni tradizionali (cristianesimo, ebraismo, ma anche quella sorta di panteismo che sembra regolare la vita della comunità di artisti). Simboliche le evocazioni sinestesiche, alcuni dettagli, la materia stessa (quella per dipingere, scolpire, o anche solo quella dei pasti), a cominciare dal titolo nella versione originale: The water and the wine, l’acqua che si trasforma in vino come nelle nozze di Cana, come nei trattati alchemici…
Sono felice che tu abbia colto questo livello simbolico. Come dicevo, il libro si può leggere in molti modi. Tematicamente, concentrandosi sulle storie d’amore, o su quel sogno comunitario. Ma stilisticamente, come pura descrizione, o come rappresentazione simbolica. Hai ragione a citare l’ebraismo. Cohen ne era certamente influenzato: era lui stesso enigmatico, contraddittorio, e molte sue strofe sembrano criptiche, metaforicamente molto dense. Sembrano rimandare sempre a qualcos’altro. Ecco, anche nelle mie pagine ho cercato di costruire dei rimandi. Perché quell’esperienza ha degli aspetti metaforici evidenti. Innanzitutto con la scrittura, l’atto dello scrivere: l’acqua che si trasforma in vino, l’espressione della creatività dell’autore resa possibile dalla materialità delle vite che racconta, ma anche dal tempo liberato dal lavoro materiale per potersi dedicare alla scrittura. E poi c’è certamente l’idea di una rinascita. San Giovanni e l’apocalisse ma quegli artisti che provano a far rivivere un sogno comunitario e creativo, a dispetto di tutto e tutti. La Grecia dei colonnelli ma anche il microcosmo di Hydra, che cerca di rigenerarsi sia grazie a chi proviene da fuori, sia per l’apertura, la tolleranza, la buona volontà di chi ci già ci viveva. La mescolanza di persone, biografie, ragioni, che alchemicamente si mescolano generando qualcosa di nuovo. Forse non fu la pietra filosofale, ma – come il vino – qualcosa di inebriante. Che cosa sarebbe la vita se ci fossero solo l’acqua, o il vino? Di entrambi abbiamo bisogno: materia e astrazione, bisogni e sogni, in costante reciproca generazione.