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MediaTech
Annalisa Monfreda lascia la direzione di Donna Moderna: lo sfogo online
Annalisa Monfreda

I primi anni sono stati i più facili: siamo riusciti a tagliare i costi del privilegio (macchine con autista, mazzette di giornali che rimanevano intonse) senza intaccare la sostanza, riuscendo persino a ricavare il necessario per investire in contenuti, sperimentazioni, errori necessari.

Dopo due anni vissuti con questa rendita, la sfida si è fatta più complessa. Bisognava riuscire a portare la qualità dei contenuti giornalistici, pilastro del brand, su tutti i canali a disposizione, che aumentavano a un ritmo forsennato e non avevano ancora una forma di monetizzazione certa: il web, i social, l’audio, le tv sul digitale terrestre. È stato necessario riorganizzare il modo in cui veniva prodotto il giornale per liberare energie e tempo da dedicare a questi canali. Siamo stati i primi ad applicare il metodo agile nel mondo giornalistico e a sperimentare la leadership diffusa. In questo modo siamo riusciti a produrre serie tv, longform digitali, libri, documentari, podcast.

L’errore che ho fatto è stato incaponirmi nell’idea che le singole persone potessero lavorare su più canali (carta, web, social) invece di costruire da subito una verticalità, una specializzazione. Temevo che si replicasse il male che attanaglia gran parte delle redazioni: l’assenza di comunicazione tra i vari canali. Temevo che chiedere alle persone di specializzarsi in qualcosa che magari avremmo smesso di fare dopo sei mesi o un anno, le avrebbe destabilizzate. Ho corretto l’errore negli anni a venire ma senza il necessario coraggio.

Non ho dirottato sufficienti risorse sui nuovi canali, credendo che ci dovesse essere corrispondenza tra costi e fatturato. Oggi credo che ciò che fattura di più (nel nostro caso, la carta) non debba necessariamente costare di più. E che anzi debba servire a finanziare l’innovazione, il futuro.

Tre anni dopo è stato chiaro che, per quanti canali riuscissimo a sviluppare, col contenuto e basta non si arrivava da nessuna parte. Bisognava ideare nuove linee di business che non fossero le copie vendute e la pubblicità. Provare a creare una relazione nuova con le lettrici che fosse profittevole. È stato il momento più appassionante.

A partire dall’unicità del nostro modo di fare giornalismo e dal legame fortissimo con la community, abbiamo disegnato corsi di formazione, spettacoli teatrali, addirittura gruppi di corsa e viaggi estremi. Le lettrici, per la prima volta, pagavano qualcosa che non fosse un giornale e sembravano grate di farlo. Idee buone e innovative, ma l’errore che vedo oggi con lucidità è non averle gestite con la mentalità di una start-up, ovvero bassi costi di produzione e viraggio immediato di fronte a ciò che non funziona.

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