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Calcio e ultras: coi violenti non servono leggi speciali, ma volontà politica

Di Lorenzo Zacchetti

Più che di daspo e trasferte vietate, bisognerebbe parlare del "modello inglese" e, dopo trent'anni di chiacchere inutili, applicarlo finalmente anche in Italia

Premier League: trent'anni di successo commerciale e sicurezza negli stadi


In precedenza c’era la Football League, che però da qualche tempo andava stretta alle big come Liverpool, Arsenal, Manchester United, Tottenham ed Everton. Anche perché galvanizzate da stadi nuovi di zecca e con posti solamente a sedere (parte fondamentale del progetto anti-hooligans voluto dalla Thatcher), tutte le 22 squadre della massima serie nel febbraio del 1992 trovarono un accordo per uscire dalla vecchia organizzazione e fondarne una nuova: la Premier League, appunto. La grossa novità era la totale autonomia nella gestione dei proventi economici dei diritti televisivi, rispetto alla divisione paritaria che prima caratterizzava il rapporto con le squadre di serie inferiore. 

Fu una sorta di scommessa in quanto al momento non c’era ancora alcun contratto, ma vinta: da lì a breve arrivò l’accordo con Sky, che credendo nel progetto coprì letteralmente i club di sterline: 304 milioni nell’arco di cinque anni, con 60 partite in diretta per ogni stagione. La concorrente ITV non riuscì a contrapporre un’offerta analoga e altrettanto impotente di fronte al corso degli eventi fu la federcalcio inglese, che si accontentò di ottenere la riduzione da 22 a 20 squadre della Premier (nel giro di due anni), per non intasare il calendario in vista del mondiale 1994. Se per caso l’intraprendenza delle squadre vi fa ripensare alle più recenti polemiche sulla Superlega, non trascurate la differenza di fondo: la Premier League non è un club esclusivo nel quale si entra grazie ai soldi e non se ne esce mai, ma è diventata il nuovo vertice della piramide calcistica, con retrocessioni in base alla classifica e promozioni dalle serie inferiori. Conseguentemente, la First Division è diventata l’equivalente della nostra serie B, la Second Division della serie C e così via. Anche Sky ha brillantemente vinto la sua scommessa passando dai 520 milioni di sterline persi nel 1992 a un profitto di 63 milioni nel 1993. Un'inversione di tendenza da fare invidia ai migliori manager del mondo.

E da lì in avanti le cifre sono cresciute in maniera esponenziale: nel 2015 l’investimento è salito a 4,2 miliardi di sterline. Certo, nel contempo il patrocinio della tv è diventato sempre più invasivo, rivoluzionando calendari e orari delle partite, ma anche introducendo spot all’americana e trasmissioni di approfondimento che hanno fatto dei calciatori delle vere e proprie pop-star. Come sempre, c’è anche un altro lato della medaglia. Anche in Inghilterra c’è un fronte “no to modern football” che non apprezza la svolta commerciale del pallone, la quale però va di pari passo con il fatto che gli stadi sono tornati ad essere dei luoghi sicuri per le famiglie, generalmente liberi dalla minaccia degli hooligans (ogni tanto qualcosa va storto anche lì, ma nessuno è perfetto). 

Lo strapotere economico ha fatto sì che l’Inghilterra accogliesse progressivamente investitori stranieri (oggi la maggioranza dei club è nelle mani di asiatici, arabi e americani), ma anche i migliori giocatori del mondo, che prima puntavano con decisione dall’Italia. Anzi, proprio dal nostro campionato sono partiti alcuni dei nomi più famosi: da Vialli a Mancini, da Ravanelli a Di Canio, da Gullit a Zola, per poi allargare il tiro agli allenatori, da Ranieri a Conte, passando per Ancelotti e tanti altri. L’internazionalizzazione della Premier League ha un po’ annacquato la tradizione del calcio inglese, tanto in campo (dove il tipico “kick and run” tutto fisico ha ceduto il passo alla tecnica), quanto sugli spalti (dove si è passati dalle “terrace” ai più sicuri stadi “all seater”).

Tuttavia, i nostalgici sono nettamente in minoranza, rispetto a chi invece si gode beatamente un torneo di alto livello tecnico e che produce ricchezza, anche nel cospicuo indotto. Considerazioni che da tempo si fanno anche in Italia, ma senza mai tradurle in azioni concrete. Certamente non sono d’aiuto i legami fin troppo stretti che certa politica nostrana mantiene con alcune “curve” e con i loro frequentatori. Almeno fino a quando questi ultimi non si rendono protagonisti di fatti di cronaca come quelli dell’A1. O peggio.

 

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