Cronache
Berlusconi e l'omelia di Delpini, piccolo gioiello architettonico di oratoria
Ai funerali di Silvio Berlusconi l'arcivescovo di Milano ha pronunciato un'omelia trasformatasi in un evento religioso, culturale e teologico. Ecco perché
Una predica non santimoniosa, non tradizionale, non agiografica, forse simpatetica, stilisticamente quasi cinematografica. Non è vero che non manifesti una conoscenza del suo soggetto. Lo vede in alcune scansioni obbligate della vita, ma non ne approfondisce nessuna, e si guarda bene dal considerare l'aspetto morale dei tentativi del soggetto per raggiungere una o molte forme di pienezza. Direi che non sia molto diversa dal film di Sorrentino, al quale forse l'arcivescovo - un raro arcivescovo che sa scrivere e comporre- si è ispirato. Si potrebbe anche supporre che Mons. Delpini avesse in mente il Peer Gynt di Ibsen, l’eroe della varietà e dell’infinita dispersione, che però l’amore di una fanciulla a lungo dimenticata che è rimasta ad aspettarlo per una vita in extremis salva.
Veniamo ora a un aspetto elementare ma fondamentale dell’omelia: è condotta tutta con i verbi all’infinito: “vivere, gioire, lottare…”. Non è usuale. Un filosofo come Husserl, se fosse stato italiano, avrebbe forse fatto così. E però in questi infiniti mi pareva che ci fosse qualcosa che avevo già sentito. Molti, molti anni fa, l’avevo sentito cantare dalla mia mamma: la canzone “Vivere” (1937). Eccone un brano, che chissà se Mons. Delpini aveva presente: "Vivere, senza malinconia, vivere, senza più gelosia senza rimpianti, senza mai più conoscere cos’è l’amore, cogliere il più bel fiore e goder la vita e far tacere il cuore. Ridere, sempre così giocondo, ridere, delle follie del mondo vivere finché c’è gioventù, perché la vita è bella e la voglio vivere sempre più".
Beh, gli infiniti di “Vivere” sono quelli di uno che ha avuto una profonda delusione d’amore, che supera relativizzando tutto. Questo non sembra il caso del nostro soggetto, anch’egli del resto un grande relativizzatore. Ma l’analogia sussiste. Così la pura grammatica mette a nudo delle strutture antropologiche alle quali il nostro soggetto ha partecipato, ma alle quali partecipiamo tutti, le forme esistenziali della nostra vita, non solo intima ma associata. Queste sono descritte nella loro crudezza, pesantezza. Le avventure del soggetto diventano le avventure di noi tutti. E’ come se accompagnassimo il soggetto in un sintetico ri-svolgimento della sua vita nei suoi momenti drammatici (mai in quelli moralmente discutibili che invece sia pur con leggerezza Sorrentino tocca). In alcuni punti sembra che nella ricerca della gioia il tedio e il grigione dilaghino. Una via crucis? Ciascuno dei presenti si è sentito afferrato da quegli infiniti come da delle tenaglie, e molti ne sono stati inquietati.