Cronache

«Contro il divampare della violenza giovanile serve l'educazione»

di Andrea Soglio

L'analisi della Dott.ssa Brasi, criminologa e psicologa, sui recenti fatti di cronaca

È stato un weekend di sangue, una lista di morte con un unico denominatore: ad uccidere sono giovani. Come Jashan Deep Badhan, 19 anni, elettricista di origine indiana, che ha confessato l’omicidio di Sara Centelleghe, 18 anni. C’è poi la ancor più terribile vicenda di Piacenza dove una 13enne è morta cadendo dal settimo piano; per la famiglia della vittima non si tratta di un suicidio o un fatto accidentale ma di un gesto di cui sarebbe responsabile l’ex ragazzo della giovane morta, 15 anni, già segnalato alle autorità per la sua gelosia ossessiva ed ora è indagato per omicidio… La lista degli ultimi mesi è ormai lunga, lunghissima e sono in molti ormai a parlare di vera e propria “emergenza sociale”.

«La crescita degli episodi di violenza con protagonisti dei ragazzi, spesso minorenni, è in crescita esponenziale - ammette la dott.ssa Cristina Brasi, criminologa e psicologa - e purtroppo gli studi dicono che dovrebbe aumentare ancora nel futuro».

Ma come si spiega questa tendenza drammatica?

«È evidente che stiamo pagando una profonda mancanza di educazione a livello familiare ma non solo, anche negli altri contesti come la scuola e lo sport, ad esempio. Al giorno d’oggi la famiglia tende sempre più a delegare all’esterno il ruolo educativo, che sarebbe principalmente suo cui non manca un messaggio in realtà contraddittorio perché nel momento in cui un insegnante o un educatore di altri tipo ad esempio “sgrida”o critica  un ragazzo ecco che il genitore delegittima quella figura a cui prima invece aveva chiesto aiuto».

Questo che effetti ha a livello educativo sui giovani?

«Per prima cosa dobbiamo capire che quando parliamo di educazione giovanile si parte in realtà da un’età ancora minore; si comincia da piccoli, piccolissimi con questo percorso. I bambini hanno una visione tutta loro del mondo che va inserita in binari e confini appunto educativi, dove il disobbedire è parte del gioco. Qui intervengono i genitori con la loro educazione, i loro limiti facendo capire fin da subito che andare oltre a questi limiti comporta delle conseguenze e così, semplicemente, li «responsabilizziamo». Ecco, ora manca questo: non esiste più il senso di responsabilità di quello che fanno…».

Ci si può difendere in qualche modo? E parlo sia ad un ragazzo e soprattutto ragazza qualsiasi ed ai loro genitori…

«Certo. Oggi abbiamo dobbiamo insegnare a riconoscere il pericolo che ciascuno deve imparare a vedere da solo. Crescere in maniera iper protettiva dei bambini porterà ad adolescenti incapaci di vederlo, dobbiamo in qualche modo allenare i nostri ragazzi al rischio in modo che possano vederlo e, quindi, evitarlo. Quindi, se togliamo ai ragazzi la responsabilità, ed il pericolo lasciamo spazio alla rabbia, in tutte le sue sfaccettature quando la vita, in maniera inevitabile, ti mette davanti ad errori, sbagli con relative critiche, e quindi sofferenza».

Quindi alla base c’è una mancanza originaria di educazione alla sofferenza?

«Senza fallimenti e sofferenze non si cresce. Ognuno di noi, da piccolo, è caduto ed ha picchiato la testa o la faccia. Dobbiamo cadere perché così abbiamo sviluppato l’istinto a, per esempio, mettere le mani davanti. Dobbiamo quindi farci degli anticorpi mentali con cui affrontare le difficoltà e, concetto fondamentale, “crescere” come persone. Ed in questo la famiglia, il genitore, l’educatore, non deve cercare alibi o scuse, anzi. Deve mostrare le cose come stanno ma sostenendo il proprio figlio, standogli vicino nella ricerca degli strumenti di vita, per affrontare la vita…Il genitore deve dare autonomia perché dobbiamo ricordare che questi ragazzi, tutti i ragazzi, hanno tutto quello che serve per essere persone perfettamente inserite nella società».

Sono in molti però, davanti a questa impennata di episodi di cronaca di brutale violenza, a chiedere pene più severe, insomma, si vuole uno Stato più duro..,. Lei cosa pensa?

«Dobbiamo stare molto attenti. La giustizia sui giovani non può essere punitiva ma riabilitativa. La giustizia deve rieducare altrimenti non risolviamo il problema alla base. La giustizia deve quindi responsabilizzare, il concetto con cui abbiamo aperto questo nostro dialogo… Ma più che la giustizia o lo Stato il primo passo, il più importante, spetta alla famiglia; non ovattare, non nascondere la sofferenza spiegando che ad ogni dolore, anche quello che sembra enorme, si può sopravvivere, anzi, si vive in maniera serena».

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