Esteri

Cina, vittoria strategica nel Pacifico. Kiribati conferma il presidente amico

di Lorenzo Lamperti

Taneti Maamau, artefice del passaggio diplomatico da Taipei a Pechino nel 2019, verso la riconferma

Se si trattava davvero di un referendum sulla Cina, Pechino sembra averlo vinto. Le elezioni presidenziali in Kiribati di lunedì 22 giugno, infatti, starebbero per concludersi con la vittoria di Taneti Maamau, l'artefice del passaggio diplomatico dell'arcipelago del Pacifico da Taiwan alla Repubblica Popolare. Il risultato ufficiale del voto non è stato ancora dichiarato, ma dai dati che circolano a scrutinio quasi ultimato la riconferma di Maamau appare certa, con un vantaggio di oltre seimila voti. Possono sembrare pochi, ma in realtà appare un divario incolmabile visto che sono state scrutinate oltre 50 mila schede. 

L'affluenza è stata molto più alta che in passato. Basti pensare che alle presidenziali del 2016 si erano recati alle urne poco più di 33 mila elettori (Kiribati ha una popolazione inferiore a 120 mila unità). Allora la vittoria di Maamau contro il rivale Rimeta Beniamina era stata ben più schiacciante, con una differenza finale di oltre 21 mila preferenze. L'attenzione sul voto era notevole sia sul fronte interno, dopo una campagna elettorale che i media del Pacifico hanno definito "la più aggressiva della storia del paese".

Sul tavolo c'erano anche (o soprattutto) i legami diplomatici con Pechino. Già, perché lo sfidante di Maamau, Banuera Berina ha fondato un nuovo partito lasciando quello del suo ex alleato proprio dopo lo switch diplomatico tra Repubblica Popolare e Repubblica di Cina (Taiwan), avvenuto lo scorso autunno sull'onda di quello effettuato dalle Isole Salomone.

La scissione aveva causato la perdita della maggioranza assoluta per il partito di maggioranza alle elezioni parlamentari di due mesi fa. Questo aveva creato delle speranze a Taipei, che pensava che una eventuale sconfitta di Maamau alle presidenziali potesse portare Kiribati a riallacciare i rapporti diplomatici con l'isola, riconosciuta ormai solo da 15 paesi nel mondo. Un eventuale dietrofront di Tarawa (capitale di Kiribati) avrebbe dato un segnale interessante a Taiwan, dopo l'appoggio comunque incassato negli ultimi mesi pandemici a più riprese da Stati Uniti ma anche da alcuni paesi europei. Basti pensare agli investimenti comune nel campo dell'innovazione con la Svezia o alla visita in programma il prossimo agosto del presidente del Senato della Repubblica Ceca.

Il voto è stato seguito con attenzione anche dalle potenze globali e regionali. Ovviamente dalla Cina, che a meno di clamorosi colpi di scena potrà ora intensificare la cooperazione bilaterale con Kiribati. Ma anche dagli Stati Uniti e dall'Australia. Canberra è invischiata da settimane in una sorta di guerra commerciale e diplomatica con Pechino e vede di cattivo occhio l'avanzata cinese nel Pacifico, sua tradizionale area di influenza. Tra le altre cose, aziende cinesi stanno cercando di acquistare Digicel, il principale operatore telefonico degli stati insulari del Pacifico.

Kiribati ha ricevuto circa 4,2 milioni di dollari dal governo cinese per vari progetti negli scorsi mesi ed è sede di una stazione spaziale cinese che, secondo alcuni osservatori, potrebbe essere utilizzata a fini strategici e operativi. Senza contare che l'isola di Natale, che fa parte dell'arcipelago, dista poco più di duemila chilometri da Honolulu, sede del Pacific Command americano. 

La conferma di Maamau conferma un trend in atto da tempo, che vede le nazioni del Pacifico (tradizionalmente allineate a Usa e Australia), intensificare i legami commerciali (e non solo) con Pechino. Al di là dell'importanza di Kiribati, è significativo che questi legami vengano sostanzialmente confermati tramite le urne in un paese storicamente riconoscente con Washington, vista la liberazione dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Evento che portò il governo di Tawara, subito dopo l'indipendenza dal Regno Unito nel 1979, a firmare un accordo che prevede che sul territorio di Kiribati non possano esserci installazioni militari straniere senza il consenso degli Stati Uniti.