Esteri
"Taiwan, l'inverno con Pechino sarà lungo. Bergoglio pronto ad andare in Cina"
INTERVISTA/ Fabrizio Bozzato, ricercatore al Cemas Center de La Sapienza e alla Taiwan Strategy Research Association, fa il punto dopo le elezioni presidenziali
A pochi giorni dalle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan, che si sono concluse con la conferma di Tsai Ing-wen e l'affermazione del Democratic Progressive Party (DPP), Affaritaliani.it fa il punto sull'esito del voto e sulle sue conseguenze in un'intervista a Fabrizio Bozzato*, ricercatore al Cemas Center de La Sapienza e alla Taiwan Strategy Research Association.
Fabrizio Bozzato, come si è arrivati a questo risultato e alla vittoria di Tsai?
Innanzitutto, Tsai Ing-wen è stata aiutata dalla tradizione politica taiwanese secondo la quale, dal 2000 a oggi, ogni presidente viene rieletto per un secondo mandato. Ha poi tratto vantaggio anche da una serie di contingenze di politica regionale: mi riferisco in particolare alla crisi di Hong Kong, all'insistenza della Cina sulla foruma "un paese, due sistemi", ma anche al forte appoggio di Stati Uniti e Giappone. Washington e Tokyo sono i principali sostenitori internazionali di Tsai, come dimostrano i due comunicati diffusi dopo la sua elezione, molto più entusiastici del laconico commento arrivato dalla Commissione europea. C'è stato poi anche un aspetto economico, con gli effetti distorsivi della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina che ha portato alcune aziende a ritornare a produrre a Taiwan.
Quali sono i meriti di Tsai nell'aver sfruttato questi elementi esterni?
Tsai è una politica esperta e di lungo corso. Ha saputo presentarsi come protettrice di Taiwan e dell'identità taiwanese intesa come distinta dall'identità cinese. La sua narrativa in materia identitaria era molto più chiara rispetto a quella degli avversari e ha dunque saputo intercettare anche il favore delle fasce più giovani. A livello economico, la sua amministrazione sta attuando la cosiddetta New Southbound Policy che sta in parte funzionando come diversificazione, ma nel lungo periodo non può funzionare in sostituzione delle relazioni commerciali con la Repubblica Popolare Cinese.
Eppure un anno fa il Kuomintang sembrava in grande vantaggio. Quali sono stati gli errori del partito e del suo candidato Han Kuo-yu?
Han era il candidato sbagliato. Il Kuomintang ha voluto giocare la carta populista ma ha sbagliato, scegliendo un politico unidimensionale che manca di profondità ed esperienza. Il KMT aveva figure molto più adatte a sfidare Tsai, come per esempio Eric Chu. In più c'è stato l'elemento disturbante di Terry Gou, figura incompatibile con la carica da presidente, che si è candidato e poi ritirato scompaginando i piani del partito. Scegliendo Han, il KMT ha sbagliato narrativa politica: non ha messo abbastanza enfasi sui temi economici ed è stato poi travolto dalla crisi di Hong Kong che ha impattato in maniera preponderante sulla campagna elettorale e sui risultati del voto. Il DPP ha saputo ricompattarsi intorno al tema identitario, il KMT si è invece diviso in fazioni.
Il tema identitario continuerà a impattare nel futuro politico di Taiwan?
Queste elezioni sono state un referendum sulla formula "un paese, due sistemi". Un referendum con un risultato chiarissimo e il rigetto di quella formula, che peraltro era già stata rifiutata da tutti i partiti in campo e non solo dal DPP. Però Hong Kong non è una carta spendibile nei prossimi quattro anni. Da adesso in poi si dovrà parlare anche di altro.
Sulla vittoria di Tsai hanno inciso anche i diritti civili, in riferimento ai quali negli scorsi mesi è stato approvato il matrimonio tra persone dello stesso sesso?
A livello generale non hanno inciso. Sì, forse le politiche in tal senso sono state premiate da una certa gioventù espressione della borghesia urbana di Taipei o di Kaohsiung ma in generale i diritti civili sono stati più utili come argomento propagandistico che come una effettiva priorità dalla maggioranza della popolazione taiwanese. Credo anzi che se si dovesse insistere sulla materia, per esempio sul tema delle adozioni, si possa poi innescare un riflusso. No, ripeto: la vera differenza l'ha fatta la preparazione di Tsai contro l'impreparazione di Han, che da signor nessuno ha vinto a Kaoshiung e dopo aver perso le elezioni in veste di vittima predestinata tornerà un signor nessuno.
Tornando al tema identitario, crede che il Kuomintang abbia il destino segnato, così come la Repubblica di Cina?
Di certo il KMT è il partito della Repubblica di Cina e non il partito di una ipotetica Repubblica di Taiwan. In questo momento sul tema identitario si trova all'angolo. Mentre Tsai è riuscita a interpretare l'identità taiwanese, il KMT non può abbandonare facilmente l'identità cinese, o meglio sinica. Per compiere una metamorfosi politica ci vuole tempo. NOn si può andare a letto cinesi e svegliarsi taiwanesi. Ora il KMT, stando all'opposizione, ha quattro anno per riorganizzarsi e reinventarsi. Non credo che il suo destino sia segnato. All'interno hanno tante figure giovani e capaci, nate e cresciute a Taiwan. Devono pensionare i "dinosauri" che gli rimandono e crearsi una nuova base, una nuova identità, senza preoccuparsi dei numeri nel breve termine. Ci sono dei giovani che votano Kuomintang e che si sentono taiwanaesi, quindi le potenzialità per tornare a giocarsi le elezioni esistono. Anche perché non si voterà sempre solo e soltanto sul tema identitario ma anche sull'economia e sulla giustizia sociale, terreno dove il DPP ha dimostrato di avere qualche problema vedendo il crescente divario tra ricchi e poveri e le scarse opportunità per i giovani.
Quali saranno le conseguenze della vittoria di Tsai nei rapporti con Pechino?
Le relazioni divetranno ancora piu disfunzionali. L'inverno continuerà e diventerà ancora piu rigido. D'altronde, per ballare il tango ci vogliono due persone e Pechino non interloquirà perché non considera Tsai un possibile interlocutore.
E Taipei quanto può reggere questo "inverno"?
Può reggere l'urto se la congiuntura economica continuerà a essere positiva e se si manterrà la protezione del "grande fratello" americano e del "fratello maggiore" giapponese. Taiwan sarà aiutata anche dalla sua ritrovata centralità geopolitica come bastione di contenimento della Cina nell'Asia orientale e perno statunitense nell'area. La retorica della "minaccia cinese" è servita e servirà ancora a molto al DPP. Poi bisognerà capire che cosa succederà a livello interno per Pechino. Se la Belt and Road si rivelerà un successo, il governo cinese avrà maggiori possibilità di aumentare la pressione su Taipei. Viceversa, se aumenteranno i problemi interni Taiwan passerà in secondo piano.
Quale ordine di importanza riveste Taiwan per Pechino?
E' una delle priorità sul lungo periodo ma non è una delle priorità di prima grandezza in questo momento. E' una tessera in una partita globale, importante soprattutto sul piano della comunicazione interna. La Cina vorrebbe idealmente una situazione di bonaccia sul fronte Taipei per potersi concentrare su altre questioni più pressanti. Potrebbe poi arrivare un'opera punitiva nei confronti di Tsai e del DPP aspettando che calino le luci dei riflettori su Taipei.
Opera punitiva di che tipo?
Pechino continuerà a erodere lo spazio di Taipei utilizzando la leva diplomatica e la leva economica. Dal punto di vista diplomatico, ci si può aspettare che altri alleati diplomatici di Taipei possano passare dalla parte di Pechino. Quest'anno, per esempio, si vota in Belize e a Palau, e solitamente le elezioni sono un momento favorevole per questo switch diplomatico, come accaduto per le Isole Salomone. Poi, in realtà, c'è da dire che la negazione dello spazio internazionale è spesso una questione nominale. Taiwan non è isolata a livello internazionale, basti vedere i rapporti seppure informali con Usa e Giappone, o le esenzioni di visto per i turisti con passaporto taiwanese in diversi paesi, compresi quelli dello spazio Schengen. Anzi, a Taiwan c'è chi pensa che restare a zero alleati diplomatici possa aprire la strada alla proclamazione della Repubblica di Taiwan. Infatti, per ora tutte le relazioni diplomatiche ufficiali sono con la Repubblica di Cina.
In quali circostanze Pechino potrebbe arrivare a un'azione militare?
L'unico scenario plausibile sarebbe quello della dichiarazione formale di una Repubblica di Taiwan. Sulla base della Anti Secession Law del 2005, Pechino sarebbe costretta a intervenire. Ma non credo che nessuno a Taiwan, tantomeno Tsai, sia talmente improvvido da compiere quel passo.
Spesso si fa confusione sullo status di Taiwan. Di che cosa si sta parlando quando si parla di "indipendenza" in riferimento a Taipei?
Allora, ci sono due aspetti. Bisogna distinguere tra rivendicazione pragmatica e aspirazione ideale. Il primo caso è quello del mantenimento dell'indipendenza de facto di cui Taiwan gode in questo momento come Repubblica di Cina. Il secondo caso è quello di coloro che vorrebbero essere indipendenti non solo de facto come Repubblica di Cina ma hanno il desiderio di una dichiarazione formale di indipendenza come Repubblica di Taiwan. Mi pare, quest'ultimo, un obiettivo irrealistico. La situazione odierna per Taiwan è ottimale. E' di fatto indipendente e gode della protezione statunitense, mentre allo stesso tempo può (volendo) sviluppare le relazioni economiche con la Repubblica Popolare, che è il suo partner naturale per l'interdipendenza della sua economia a quella di Pechino. Un maggiore pragmatismo nei rapporti non guasterebbe anche a livello strategico: se Taiwan diventa più ricca (e in tal senso i rapporti commerciali con Pechino sono insostituibili o quantomeno ineliminabili) diventa più forte anche politicamente. Con un'economia più debole Taiwan è più vulnerabile anche politicamente.
Le relazioni con Washington rimarranno forti con o senza Trump?
Dipende. Taiwan in questo momento è tornato un tema centrale nella dialettica Usa-Cina-Giappone. Bisogna vedere se in futuro, messa alle strette, Trump o il suo successore riterrebbe Taipei un alleato fondamentale e imprescindibile oppure solo una carta negoziale con Pechino.
A proposito di alleati diplomatici, si aspetta che la Santa Sede interrompa i rapporti diplomatici con Taipei e inizi ufficialmente quelli con Pechino?
Al ritorno dal suo viaggio in Thailandia e Giappone, Papa Francesco ha detto chiaramente che lui ama la Cina e che sogna di andare a Pechino. Mi pare un messaggio molto chiaro al quale la Cina dovrà dare risposta. Pechino poneva due precondizioni: la non interferenza agli affari interni cinesi (nodo risolto con l'accordo sulla nomina dei vescovi) e quella sul riconoscimento del principio dell'unica Cina. Nel caso Pechino offrisse la possibilità di relazioni diplomatiche ufficiali e di una visita papale, in cambio di garanzie sull'autonomia della chiesa cattolica in Cina, credo che la Santa Sede accetterebbe. Idealmente, la Santa Sede riterrebbe di aver trovato una soluzione a una questione aperta da secoli (o da vari decenni se si guarda alla Repubblica Popolare Cinese) e potrebbe muoversi in nome di una evangelizzazione della Cina e il coronamento di un dialogo iniziato a suo tempo da Matteo Ricci. Bergoglio, un papa gesuita, coglierebbe l'eredità spirituale del grande gesuita Ricci risolvendo una volta per tutte la questione cinese e lasciando un'eredità storica.
*Fabrizio Bozzato ha conseguito il PhD alla Tamkang University di Taipei. E' ricercatore al CEMAS Center dell'Università di Roma "La Sapienza" e all'EU Research Centre della National Chengchi University. E' anche ricercatore associato alla Taiwan Strategy Research Association. Svolge il ruolo di ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta presso la Repubblica di Nauru.