Esteri

Trump? Insiste sui brogli per il 2024. Così indebolisce Biden (e l'America)

di Lorenzo Lamperti

Il presidente uscente forza su alcuni dossier, a partire da quello sulla Cina, per mettere in crisi il Dem. Ma espone gli Usa a dei rischi strategici

Non si tratta più di schede contate, da contare o da ricontare. E forse non si è mai trattato fino in fondo di questo. Donald Trump continua a non riconoscere la sconfitta alle elezioni presidenziali del 3 novembre, anche se inizia a mostrare segni di quello che avverrà tra pochi giorni, poche settimane o al massimo due mesi. "Ha vinto lui ma rubando". Questa la exit strategy di un presidente uscente che non può, cioè non vuole, ammettere la sconfitta alle urne. Nonostante anche all'interno del campo repubblicano le voci che provano a convincerlo sono in aumento, ultima tra le quali quella del governatore del Maryland. 

Trump si muove come se avesse vinto davvero, ma sa che ormai tutto va nella direzione opposta. Chi paragona la situazione attuale a quella del 2000 tra Bush Jr. e Al Gore è molto lontano dalla realtà. Allora, tutto ruotava intorno a una differenza di 537 voti in un singolo Stato, la Florida. Qui, nei cinque stati nel mirino della campagna trumpiana, la differenza minore è quella in Arizona, dove Biden è arrivato davanti di 11 mila voti. Non si tratta solo della Pennsylvania, come sperava lui. Biden ha prevalso anche in Georgia e Arizona, arrivando a 306 grandi elettori definitivi. Donald, però, va avanti per la sua strada e lo fa non tanto perché pensa davvero di poter restare alla Casa Bianca anche dopo il prossimo 20 gennaio. La sua idea è quella di costruire, anzi alimentare, una retorica che gli possa consentire di prepararsi la strada per tornarci quattro anni più tardi.

Si fa spesso un errore di superficialità quando si parla di "paese diviso" in seguito al voto. Normalissimo che si voti spaccati quasi a metà. Però l'America è davvero divisa e non per le percentuali di voto, ma per la negazione totale del campo avverso. Trump lo sa, ha governato soprattutto per chi lo aveva votato nel 2016 e lavora proprio sulle divisioni per immaginare o pianificare il possibile futuro ritorno. 

Trump sa che la costellazione di blog e siti di disinformazione (americani e non) continueranno a sostenere la sua teoria del complotto. Che non si interromperà quando Biden entrerà alla Casa Bianca. Anzi, quello sarà il vero avvio della battaglia per tornare a conquistare "ciò che gli spetta" e che gli è stato "rubato". Una riproposizione in forma personalistica di quel "non farsi fregare" che era alla base dell'America First che gli ha consentito di battere Hillary Clinton.

Si tratta però di un esercizio pericoloso. Per quello che potrà accadere nei prossimi quattro anni, certo, ma anche per quello che sta già accadendo in queste settimane. Trump ha dato il via a delle purghe che hanno già toccato o stanno per toccare difesa, servizi segreti, commercio e non solo. Obiettivo: circondarsi di fedelissimi pronti a sposare la sua linea e a sabotare la fase di transizione. La sensazione, come ha scritto nei giorni scorsi l'Economist, è quella di chi vuole "demolire tutto".

Ed ecco allora che colui che dovrebbe passare, come da prassi, i rapporti di intelligence a Biden in quanto presidente eletto, si rifiuta di farlo in attesa dei ricorsi legali. Ed ecco che Mike Pompeo viaggia in Europa e in Medio Oriente come nulla fosse, forse anch'egli in tour per un'ipotetica candidatura nel 2024. Ed ecco le nuove mosse in politica estera che possono pregiudicare le strategie di Biden. Come sulla Cina, dove oltre alle nuove sanzioni sono in arrivo altre mosse che rischiano di portare i rapporti a un punto di non ritorno. Per esempio sullo Xinjiang e sulle presunte "azioni malevole" di Pechino sul territorio americano, mentre Pompeo pungola il Dragone dicendo che Taiwan "non ha mai fatto parte della Repubblica Popolare Cinese".

Anche altrove, tra l'annunciato ritiro di truppe dal Medio Oriente e non solo, ci si aspetta qualche sorpresa. Con la conseguenza che Washington si espone a chi intravede una debolezza che potrebbe permanere anche dopo gennaio per la transizione ritardata. La chiamavano America First, ormai è chiaro che l'America, nell'ordine delle priorità di Trump, arriva al massimo seconda.