Food
Come salvare i conti, spesso in rosso, di un ristorante stellato
Il cosiddetto "fine dining" non è sicurezza di guadagno, anzi. Per farlo l'unica ricetta è: ragionare da imprenditori più che da chef
La dura vita (economica) dei Ristoranti Stellati
La sostenibilità (economica) dei ristoranti stellati o gastronomici che dir si voglia è uno degli argomenti più gettonati delle ultime settimana in concomitanza con la presentazione della Guida Michelin ed i suoi nuovi alfieri del gusto pronti a mettere in mostra un riconoscimento che pare sposti fatturati ma non ci è concesso sapere in che direzione.
La domanda è una: i conti tornano? O meglio, come si fa a farli quadrare? Sono molti da questo punto di vista i casi di ristoranti che hanno chiuso o che sopravvivono “in perdita” grazie a denaro fresco messo nelle casse dagli stessi proprietari e che arriva da attività alternative, come catering, libri, etc etc etc. E sono molti a sostenere che per guadagnare bisogna aumentare ulteriormente i prezzi, già alti.
Partiamo dai fatti. Da un caso studio: il 21 dicembre 2012, su istanza della Procura della Repubblica, il Tribunale di Torino ha dichiarato fallito il Ristorante Del Cambio a Torino. Bancarotta e passivo di 60 milioni di euro. Un pezzo di storia italiana, che sorge nel cuore del capoluogo sabaudo, in piazza Carignano. È lì da sempre, da quando Torino era capitale d’Italia e in quelle sale si decidevano le sorti del nostro paese. C’è ancora il posto del presidente del Consiglio dei ministri Camillo Benso, conte di Cavour. Cosa ne è stato di quel posto?
Oggi splende, sotto la guida dello chef Matteo Baronetto, * Stella Michelin, che fa capo anche al bar Cavour e a la Farmacia, una sorta di bistrot, tanto di moda in questo periodo. Chi c’è dietro? L’imprenditore Michele Denegri. Nessuno più di loro è in grado di spiegarci come guadagnare con l’alta ristorazione.
“I ristoranti sono delle aziende, partiamo da questo assunto che parrebbe scontato ma non lo è, e in quanto azienda occorre fare in modo che i conti tornino. Servono delle spalle grosse, avere un boost iniziale che ti permetta di avviare l’azienda in un lasso di tempo che può durare anche degli anni” - dichiara lo chef Matteo Baronetto – “Un progetto che parte va poi strutturato, con disponibilità finanziarie che ti permettano anche il lusso di perdere. Parliamo di perdite che devono essere calcolate. Mi torna alla mente Mario Draghi quando parla di debito buono e di debito cattivo. Serve avere una progettualità, sono discorsi che si fanno in tutte le aziende, non c’è nulla di scontato e in un mondo che va veloce come quello di oggi devi correre sempre per essere al passo della concorrenza”.
Qual è il segreto per guadagnare o almeno non perdere?
“Tre cose, semplici: prodotto, persone, attrezzature. Se non hai un prodotto ti fai male, se non hai persone che credono in te e condividano un percorso e una visione non vai lontano e se non hai attrezzature non puoi realizzare nessun progetto. Nell’alta ristorazione hai margini di errore minimi, è vero, colpa delle materie prime di primissimo livello, dei costi fissi di location prestigiose, del capitale umano. Fino a 25 anni fa non esisteva il food cost, il beverage cost. Si andava a naso, oggi pianificare questi aspetti si può, anzi, si deve e ti permette di perdere meno soldi possibili”.
In che senso?
“Nel senso che nel nostro lavoro tutto ciò che non controlli ti fa perdere soldi. Se tiri la riga a fine mese l’inefficienza di un ristorante a chi è da imputare? Sarà che non siamo tanto metodici. Sarà che siamo legati ad una azione in qualche modo artigianale. Non sono un docente di economia e di finanza ma dovremmo iniziare a ragionare in termini di studio della produttività”.
Cioè?
“Vuol dire capire se è giusta la quantità e di conseguenza la qualità prodotta in un determinato tempo e con determinati mezzi. Ragionamenti che nel comparto manifatturiero sono all’ordine del giorno. Vuol dire chiedersi perché i cuochi devono lavorare 16 ore al giorno. Lavorano un tempo giusto? Fanno le giuste azioni? Ci sono sacche di inefficienza che inficiano il risultato finale. Bene, come le individuo? Noi cuochi siamo abituati a lavorare fin quando dobbiamo, ok, ma quando è la fine? Non si può ragionare al contrario? Non voglio dire essere dei cronometristi”.
E allora?
“Ci sono brigate incredibili per 18 coperti che lavorano 16 ore al giorno e se giro la pagina il conto economico non torna e anche il welfare aziendale non se la passa bene. E così le risorse non si trovano. È un circolo vizioso. Dobbiamo cambiare il modello organizzativo nell’alta ristorazione. In qualche modo dovremmo buttare un occhio alla ristorazione scalabile, i format”.
E poi ci sono i piani B. I bistrot, i catering, i grandi eventi.
“Alleati in casa, resta inteso che i soldi persi sono persi. Noi siamo una realtà con diversi outlet al suo interno, dove ognuno di loro ha un mini-conto economico separato. Quindi se non funziona qualcosa lo vediamo subito. Certo, abbiamo creato una trasversalità delle risorse ma questo fa parte di avere una visione d’insieme delle cose. Un tempo la panacea erano i grandi eventi, poi per sbarcare il lunario sono subentrate le consulenze, la tv. Tutto giusto, fa parte del nostro lavoro e dell’autorevolezza che uno chef raggiunge nel corso della sua carriera. Ma ho come la percezione che ci sia sempre bisogno di qualcosa in più per far quadrare i conti. Non sarebbe meglio capire se siamo sul mercato con un business che funziona invece di cercare perennemente dei tappabuchi?”
E quindi come se ne esce?
“Bisogna entrare nel dettaglio delle cose per capire se la sostenibilità (economica) di un progetto è minata o meno. C’è oggi lo spauracchio dell’alta ristorazione, come se investire in questo mondo equivalga ad un bagno di sangue. Non è giusto parlare in questi termini. Perché spaventare gli investitori? Perché far passare il messaggio che si guadagna solo con progetti veloci e scalabili? Realmente credete che sia colpa del cuoco? Il cuoco fa quello che sa fare. Per il resto occorre avere una gestione dettagliata e una progettualità limpida”.
In conclusione, la ristorazione “stellata” è in crisi o no?
“Sta vivendo un momento di difficoltà, negarlo sarebbe stupido. Il fatto che si fa fatica a far quadrare i conti non aiuta il settore ma la malagestione esiste in tanti altri mondi del lavoro anche meno complicati del nostro. Sarà anche che la gente quelle 200 euro che spenderebbe per una cena in un fine dining preferisce spenderle in 3 bistrot. Cosa cambia? La percezione della cosa, mica la spesa fatta! L’alta cucina esisterà sempre, cambieranno i clienti, magari anche certe formule ma la sua esclusività non tramonterà mai”.