Politica

Matteotti, un delitto di Stato: la testimonianza del collega Pietro Mancini

Di Pietro Mancini

Dopo Il sacrificio del coraggioso deputato socialista nacque il fascismo come regime, integralmente, totalitario.

Matteotti, un delitto di Stato

A Pietro Mancini, mio nonno-che in quel caldo 11 giugno del 1944, a Napoli, era ministro senza portafoglio nel secondo Governo Badoglio-il suo vecchio amico e leader del PSI, Pietro Nenni, affidò la commemorazione, dal titolo significativo “L’ombra sua torna”, di Giacomo Matteotti, al teatro Santa Lucia. Nenni sapeva che il deputato veneto, prima che il compagno di fede di “don Pietro”-come chiamavano Mancini, con rispetto, i deputati più giovani-sedeva sui banchi dí Montecitorio accanto a Matteotti.

E l’allora ministro, prefetto di Cosenza e poi padre Costituente, aveva pronunciato, per il PSI, la risposta all’indirizzo della Corona, solo 3 giorni dopo la fitta requisitoria matteottiana del 30 maggio, ricordata come il “discorso della morte”, contro la legittimità delle elezioni del 6 aprile 1924, svoltesi, in un contesto di abusi e violenze, con la famigerata legge Acerbo. “E Giacomo-raccontò il suo compagno a Napoli-tra pochi giorni avrebbe accusato alcuni gerarchi fascisti, arricchitisi nelle forniture dello zucchero e del petrolio. E avrebbe aggiunto che le responsabilità erano ben più in alto”. Mancini aggiunse : “tra me e Giacomo avvenne un intimo atto, amicale e fraterno, che dovette da lui essere riferito alla moglie, o segnato in qualche sua intima carta. Che mi ha dato, sempre, la prova che l’amico carissimo sentiva, nel fondo dell’anima, il triste presagio della sua fine”.

Durante la seduta, il Duce inveì contro l’amnistia, concessa da Nitti ai disertori. Matteotti si alzò in piedi e rispose : “…anche voi avete, sul vostro giornale, “Il Popolo d’Italia”, lodato l’amnistia”. 20 anni dopo, Mancini non aveva dimenticato che l’interruzione era arrivata sul volto dì Mussolini come uno schiaffo. Il movimento degli occhi torvi si intensificò e il Duce reclamò, immediatamente, la prova. Matteotti non si scompose. Tolse dalla busta di cuoio, gonfia di documenti, un numero del giornale fascista e, dinanzi alla Camera attonita e al despota, sconcertato, lesse le parole laudative di quel foglio. Un pugno sul tavolo e uno sguardo più truce furono la risposta di Mussolini. Seguirono le truci minacce a Matteotti, che non mosse ciglio. “I grandi occhi luminosi, miti, dolcissimi-riflessi della sua grande anima-ricordò Pietro Mancini-non mutarono espressione. Irrise alla condanna a morte”. Non riuscì a sottrarsi alla commozione e ai toni lirici del penalista di rango Pietro Mancini quando, ai tanti presenti nel teatro partenopeo, ricordò che “il 10 giugno, alle ore 17, Matteotti sparì per sempre…lasciando dietro a sè solo il numero di una macchina, che si involava nella campagna romana….verso il martirio, verso la gloria”.

E il presidente del Consiglio cosa rispose al deputato socialista di Milano, Enrico Gonzales, che lo incalzò : “Dunque, è possibile che qui, a Roma, possa sparire un deputato, senza che il governo possa dir parola…” ? “Mussolini-ricordò Mancini-restò lì, al suo posto, livido, sgomento, la testa reclinata sul petto e le braccia abbandonate sul banco. È l’accusato, il responsabile, l’assassino”.

Apostrofato dal repubblicano Enrico Chiesa, finalmente, il capo del governo si alzò, sgomento. Per assicurare alla Camera che i colpevoli sarebbero stati, inesorabilmente, puniti e che “solo un suo mortale nemico avrebbe potuto escogitare tale disumano delitto”.

Il Duce restò, per giorni, in preda al panico. Il Paese era in sussulto. Tutto il mondo civile si interessò al delitto.

Il Presidente del Consiglio fece arrestare Cesarino Rossi, il capo del suo ufficio-stampa, Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni, e il segretario amministrativo del PNF, Giovanni Marinelli. E fece dimettere il direttore generale della PS, Emilio De Bono, contro il quale il direttore de “Il Popolo”, Giuseppe Donati, presentò una denuncia per mandato in assassinio. Al centro dell’azione omicida ai danni di Giacomo Matteotti, spuntò un gruppo di ex-arditi di guerra milanesi che, nel pomeriggio del 10 giugno 1924, avevano rapito e assassinato, a Roma il segretario del Partito socialista unitario. C’erano il capo, il killer fiorentino Amerigo Dùmini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo.

Con il regime, che barcollava, l’opposizione avrebbe potuto fare di più e di meglio ? “Oh ! Se allora avessimo osato-rimpianse Mancini-quanti lutti avremmo risparmiato agli italiani e quante sofferenze a noi stessi !…Invece Turati ci raccolse, in un’aula di Montecitorio, per leggerci la più bella pagina di letteratura commemorativa, che sia mai stata scritta. Romanticismo senza vita. Idealismo senza lotta. Letteratura senza azione. Lampada attorno al feretro, che illumina, ma non riscalda”. E l’oratore aggiunse: “Non recrimino e non recito il “mea culpa”. Nella storia e nella vita, non valgono nulla e il “mea culpa” non è dei forti. Noi, oggi, siamo forti e possiamo denunciare il nostro errore. Siamo forti perchè abbiamo conquistato quel prezioso patrimonio morale, fatto di sangue, di carcerazioni, di esili, di confini, di persecuzioni, che rappresentano, più di qualsiasi ideologia, l’onore, la dignità, la forza di un partito rivoluzionario”.

Ma gli assassini dove avevano nascosto il cadavere glorioso, che non si trovava. Il fascismo ne aveva paura. La vittima, pur morta, era temibile. La Vedova venne ricevuta da Mussolini.

E Mancini rievocò il triste ritrovamento del cadavere di Matteotti, il 17 agosto 1924, nell’Italia assolata e distratta del Ferragosto, in una fossa frettolosa, sulla via Flaminia, al margine della boscaglia nota come “La Quartarella”. Riferì l’oratore : “Aveva nel cuore piantata una lima e sulle carni lacerate i segni del martirio. È Lui. Giacomo Matteotti. Il nostro martire. Il nostro apostolo”. E, nel gremito teatro di Napoli, uno dei più cari amici di Matteotti sostenne : “Ma Giacomo non se n’è andato. È con noi per sempre. Dal borgo, dove nacque, si è irradiato oltre confine.Da cittadino di Fratte Polesine, dove era nato il 22 maggio 1885, è diventato cittadino del mondo. Egli, come Cristo, si è immolato, con coraggio e dignità, per la Sua religione. La quale ha un solo dogma : la libertà. Un solo Vangelo: la esaltazione del lavoro”.

Una cupa storia, il delitto Matteotti, di vendetta e di odio, seguita da un processo-farsa, a Chieti, con irrisorie condanne a Dùmini e camerati.

E il mandante del delitto fu nominato Maresciallo d’Italia e cavaliere della SS. Annunziata….per finire in una fossa di giustiziato con l’epitaffio della fellonia !

E, alla Camera, il deputato socialista, Fabrizio Maffi, chiese a Mussolini : “Da quando in qua l’assassino commemora la propria vittima ?”. “Il cinico-riferì alla attenta platea di Napoli Pietro Mancini-non si scompose. Sfidò la morale, la civiltà,la gentilezza italica. E affermò, il 3 gennaio 1925, la data storica della sua vergogna, che il “quartarellismo” è una speculazione ignobile. E che, se il fascismo deve apparire come una associazione a delinquere, egli se ne considerava il Capo”.

In quel triste giorno, per l’Italia, nacque il fascismo come regime, integralmente, totalitario.Quell’efferato “delitto di Stato” impresse una svolta profonda nella storia dell’Italia del 1900. Una medaglia alla memoria di quel coraggioso parlamentare, che la storia ci consegna-dovrebbero riconoscerlo, 100 anni dopo, tutti gli italiani-come il più coraggioso, il più intransigente dei nemici della dittatura fascista.

Commoventi le ultime parole del discorso del dirigente socialista : “Matteotti è un simbolo, è una fede, è un destino. È una forza irresistibile di azione e sfavilla nelle nostre coscienze, come un raggio di sole senza tramonto.

Grazie, Compagno ! I lavoratori e il popolo di Napoli, oggi, i lavoratori e il popolo d’Italia, domani, quando si daranno convegno nella tua Fratta Polesine liberata ti avranno, sempre, in prima linea, per lanciarti-spezzate le catene-una parola, un gesto, un fiore…Soltanto allora, e non oggi, con la mia parola, i socialisti sapranno, degnamente, celebrarti”.