Cronache

La mamma di un 18enne ucciso in Siria: "Molenbeek non è un quartiere mostro"

"AVEVO AVVERTITO LE AUTORITA' MA NON HANNO FATTO NULLA"

di Lorenzo Lamperti
twitter11@LorenzoLamperti

MOLENBEEK (BRUXELLES) - Il vento soffia forte sulla Place Communale. Le strade sono praticamente deserte. Una pattuglia di militari controlla l'entrata della stazione della metropolitana di Comte de Flandre. Un fruttivendolo e un bar alzano la saracinesca. Nonostante tutto, si prova a continuare a vivere nel quartiere finito sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Lo chiamano Belgistan, "quartiere mostro", "fabbrica di jihadisti". Qui si è nascosto per quattro mesi Abdeslam Salah, da qui sono partiti per la Siria tanti, troppi, giovani belgi di seconda o terza generazione.

Ma Molenbeek non è solo questo. Qui c'è anche e soprattutto chi conduce una battaglia per l'integrazione, nell'indifferenza generale di istituzioni che hanno spesso trattato questo comune come un corpo estraneo. Un corpo estraneo che si trova a 15 minuti di camminata dalla piazza centrale della capitale dell'Unione Europea. Tra chi conduce questa battaglia solitaria ci sono le coraggiose donne di Les parents concernés (I genitori preoccupati), un'associazione di volontariato composta da madri di giovani partiti per la Siria. Géraldine riceve Affaritaliani.it nei locali dell'associazione, nel cuore di Molenbeek.

Géraldine, Molenbeek è davvero un "quartiere mostro"?

No, Molenbeek è un quartiere normale dove ci sono persone di varia provenienza che vivono tutti i giorni insieme senza problemi. La cosa vera è che i giovani fanno tanta, troppa fatica a costruirsi un futuro qui. La disoccupazione è altissima, soprattutto tra gli immigrati. C'è un rapporto sbagliato con le istituzioni, c'è sfiducia reciproca. I giovani di seconda o terza generazione non si sentono integrati, pensano di non avere un avvenire e finiscono per commettere delle sciocchezze. Purtroppo anche delle tragiche sciocchezze. E alla fine succede che uno parte per la Siria alla ricerca del suo posto nel mondo. Un posto che non ha trovato qui in Belgio.

20160328 112836L'associazione Les Parents Concernés a Molenbeek
 

Quindi è un problema generazionale?

Sì, è in tutto e per tutto un problema generazionale. Ma la cosa assurda è che siamo già alla terza generazione di belgi figli e nipoti di migranti ma non abbiamo ancora imparato a considerare questi ragazzi come dei belgi. E invece sono belgi a tutti gli effetti: hanno fatto qui la scuola, i loro genitori sono nati qui o sono qui da decenni, pagano le tasse qui. Sono famiglie belghe, com'è possibile non capirlo?

Da qui sono partiti tanti ragazzi per la Siria. Che cosa si può fare per evitare questa continua tragedia?
 
Noi qui a Molenbeek abbiamo creato un'associazione di genitori i cui figli sono partiti per la Siria. Sostegno, prevenzione e formazione sono le tre parole d'ordine della nostra attività, del tutto volontaria. Parole d'ordine che le nostre istituzioni non conoscono neppure. Quando tuo figlio parte per la Siria resti completamente sola. Non hai l'aiuto della famiglia, non hai l'aiuto delle autorità. Anzi, al contrario sei stigmatizzata e considerata solo come la madre di un terrorista. Il nostro compito, il mio compito, è provare a evitare che altri giovani vadano in Siria a trovare la morte come è successo a mio figlio. Andiamo nelle scuole a parlare delle nostre storie. Raccontiamo la sofferenza dei genitori perché si deve capire che quando un figlio diventa un foreign fighter tutta la famiglia è distrutta. Questi ragazzi devono capire che la Siria non è il loro posto, che quella guerra non è la loro guerra e che il loro posto è qui in Belgio.
 
Che cosa è successo a suo figlio?
 
Mio figlio Anis è partito per la Siria nel gennaio 2014, quando aveva 18 anni. Il suo reclutamento è durato quattro mesi e io non mi sono accorta di nulla, tranne alla fine quando ha cominciato a tornare a casa parlando di brani del Corano travisandone completamente il significato. Lì ho capito che qualcosa non andava. Ho scoperto che si stava preparando a partire per la Siria. Ho provato in tutti i modi a bloccarlo ma non ci sono riuscita. Ho chiamato la Polizia e le autorità, li ho avvertiti di tutto. Gli ho anche detto quando sarebbe partito, li ho pregati di fermarlo. Ma non hanno fatto niente.
 
Quindi le autorità erano informate che suo figlio, un belga, stava per diventare un foreign fighter eppure non lo hanno fermato?
 
Esatto, non hanno fatto nulla. Sembra uno scherzo ma è così. Mentre mio figlio era in Siria ho avuto contatti regolari con lui, nonostante tutto eravamo rimasti molto legati. Poi, nel febbraio 2015 ho ricevuto un messaggio nel quale si diceva che mio figlio era morto difendendo l'aeroporto di Aleppo dall'attacco della coalizione guidata dagli americani. Questo è tutto quello che mi è rimasto di lui: né il corpo, né una foto. Solo un messaggio. Nient'altro.
 
In che modo accade che un giovane belga resti affascinato dal jihadismo?
 
Non è difficile identificarsi con il Jihad qui in Belgio. I giovani non trovano un posto per loro e pensano che in Siria lo troveranno. Pensano che là saranno considerati, partecipando a qualcosa di grande. "Lì hanno bisogno di me", pensano, "qui in Belgio nessuno mi vuole e nessuno ha bisogno di me". Questa è l'amara verità. I reclutatori gli promettono un paradiso che non esiste e loro sono rovinati per sempre.
 
Qual è il rapporto tra i giovani che partono per la Siria e l'Islam?
 
I reclutatori usano un Islam travisato per influenzarli. Ma loro sono solo 16enni o 18enni che bevono Coca Cola e mangiano patatine fritte. Non c'entrano nulla con una guerra santa.
 
Quali sono le responsabilità degli imam e della comunità musulmana praticante?
 
Abbiamo parlato molto con gli imam. Gli abbiamo spiegato che devono aprire le moschee ai giovani. Non è possiible che le moschee siano aperte solo cinque minuti prima e cinque minuti dopo le preghiere. E i giovani non gli interessano. Stanno attenti solo alle generazioni adulte perché sono quelle che possono portargli sostegno anche finanziario. La comunità musulmana deve aprirsi, soprattutto aprirsi ai giovani, spiegandogli i veri valiro dell'Islam. Ora gli imam hanno cominciato a parlare ai nostri giovani. E' fondamentale perché devono praticare un'Islam belga, che affonda le sue radici qui e nella nostra storia, non in quella dell'Arabia Saudita.
 
La vostra associazione è stata ben accettata dalla popolazione di Molenbeek?
 
Assolutamente sì, abbiamo un rapporto ottimo. Da poco abbiamo cambiato sede grazie al comune di Molenbeek che ci ha dato questa struttura gratuitamente. Ora iniziamo a ricevere qualche sostegno anche da qualche fondazione che si è accorta dell'importanza del nostro lavoro, fatto in maniera completamente volontaria. Credo che anche le autorità dovrebbero rendersene conto.
 
I cittadini di Molenbeek che non hanno nulla a che fare col terrorismo si sentono protetti dalla Polizia e dalle autorità?
 
E' molto difficile affermare di sentirsi protetti. Basta guardare quello che è successo la domenica di Pasqua. Hanno annullato la marcia contro la paura per poi permettere agli hooligans di profanare un luogo di raccoglimento e solidarietà verso le vittime degli attentati. E' tremendo, ci hanno impedito di dare il messaggio di un Belgio che si rialza, che non ha paura e nel quale l'unione fa la forza. Ma hanno permesso quella follia. E' stata una catastrofe.
 
Come si può salvare Bruxelles? Come si può salvare l'Europa?
 
Bisogna salvarsi. A tutti i costi. Bisogna lavorare coi giovani, dargli la parola e dargli in futuro nella nostra società. E' tutto ciò che chiedono. Bisogna rispettarsi gli uni con gli altri. Bisogna rispettare tutte le etnie, tutte le religioni. L'Islam belga deve prendere fortemente la parola e imporre i suoi valori che non sono quelli che propinano i reclutatori dell'Isis. E le autorità devono capire che la repressione da sola non serve a niente. Ci vuole prevenzione. Non possono lasciarci da soli.