Banche italiane, test con poco stress: stanno peggio gruppi francesi, tedeschi
Se Banco Bpm e Ubi Banca (oltre a Banca Carige) mostrano qualche debolezza nello scenario avverso, molto più fragili appaiono Deutsche Bank, Barclays e Societe
Tanto tuonò che (quasi) non piovve: gli stress test Eba, come ampiamente pronosticato, non hanno mostrato particolari situazioni di sofferenza per le quattro maggiori banche italiane, con solo Banco Bpm tra le sei banche europee che vedrebbero il “leverage”, nello scenario avverso, ridursi a fine 2020 ad un livello pari o inferiore al minimo regolamentare (il 3% per Banco Bpm), mentre Ubi Banca e lo stesso Banco Bpm figurano tra le 10 banche che, sempre nello scenario avverso su tre anni, vedrebbero l’indicatore Cet1 ridursi ai livelli minimi assoluti (il 8,3% per Ubi Banca, l’8,5% per Banco Bpm).
Considerando anche che negli stress test “ufficiosi” svolti in parallelo dalla Bce su altri sei gruppi italiani di medie dimensioni solo Banca Carige ha evidenziato una fragilità patrimoniale che potrebbe indurre i principali soci a varare una nuova ricapitalizzazione, tanto più se continuerà a slittare il previsto collocamento di un bond “tier 2” da 200-300 milioni di euro, i progressi messi a segno in 12 mesi dal sistema bancario italiano sono evidenti, così come sono apparsi evidenti i problemi che continuano ad avere le banche di altri paesi europei, in particolare Germania e Francia, ma anche Gran Bretagna.
In particolare Barclays ha ottenuto il risultato peggiore tra le grandi banche europee, con un Cet1 che si ridurrebbe nell’ipotesi più severe al 6,4% a fine 2020, contro il 6,8% di Lloyds Banking Group, il 7,6% di Societe Generale, l’8,1% di Deutsche Bank, l’8,6% di Bnp Paribas e il 9,9% di Commerzbank. Credit Agricole, al contrario, godrebbe ancora di un “sano” Cet1 pari al 10,2%, molto vicino al Cet1 medio che l’Eba ha indicato pari al 10,3%. Intesa Sanpaolo nelle medesime condizioni, per dire, conserverebbe un Cet1 del 10,4%, mentre Unicredit lo vedrebbe calare al 9,3%.
Stiamo naturalmente parlando di ipotesi e vale la pena di ricordare che lo scenario “avverso” (il peggiore) si basava su quattro punti: una deviazione (cumulata) del Pil, rispetto allo scenario “di base” dell’8,3% nel triennio 2018-2020, un aumento della disoccupazione del 3,3% entro il triennio, una caduta cumulata dei prezzi al consumo del 3,5% (ossia un’inflazione negativa di circa l’1% annuo), un crollo dei prezzi degli immobili residenziali (ovvero commerciali) del 27,7% (ovvero del 19%) sempre rispetto allo scenario di base nel triennio.
Ipotesi molto, forse troppo, severe, visto che in Italia la crescita acquisita del Pil era, a fine settembre, pari all’1% con una crescita tendenziale dello 0,8% dopo la crescita zero del terzo trimestre, mentre l’inflazione restava a ottobre attorno all’1,6% annuo (dopo una variazione nulla su base mensile), anche se continua a preoccupare l’andamento del mercato del lavoro, con una disoccupazione risalita a fine settembre al 10,1% (ovvero al 31,6% per i giovani).
Un altro punto debole di questi stress test è che come già nelle precedenti occasioni sono rimaste escluse le banche di media dimensione (per le quali la Bce ha avviato test paralleli i cui risultati non verranno comunque resi noti ufficialmente) e il credito rurale/popolare (su cui Mario Draghi non ha competenza). In questo modo Germania e Francia hanno potuto farsi i conti in tasca senza dare troppo nell’occhio e mentre di Banca Carige si è saputo, nulla è finora filtrato circa le landesbank tedesche o le casse rurali francesi.
Anche così, l’esercizio non si rivelerà inutile probabilmente: è sotto gli occhi di tutti come Barclays, Deutsche Bank e Societe Generale siano le tre grandi banche europee che ancora appaiono fragili a dieci anni dalla crisi economico-finanziaria mondiale. Potrebbero dunque cercare di chiedere nuovi capitali ai mercati, o prendere decisioni strategiche in merito ad eventuali nuove cessioni o anche valutare fusioni e partnership strategiche. Difficile dire se questo potrà avere conseguenze anche per gli istituti italiani.
Da un lato il tema della “difesa dell’italianità” di banche e aziende rende difficile pensare che investitori internazionali possano rilevare istituti come Banca Carige o altri, dall’altro non è detto che gruppi come Intesa Sanpaolo o Unicredit siano così interessati a imbarcarsi in operazioni di forte impatto finanziario e organizzativo e di dubbio esito in termini reddituali come un’integrazione con gruppi quali Deutsche Bank o Societe Generale, pur essendo state tali ipotesi ventilate più volte in un passato ancora recente.
Alla fine la sensazione è che molto dipenderà dalla capacità dei singoli istituti di innovare il proprio modello di business per recuperare quella redditività che anni di tassi a zero hanno finito col comprimere a livelli minimi e stare al passo con la sfida crescente che proviene dai grandi gruppi high-tech mondiali e dalle startup della fintech.
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