Esteri

Notre Dame, Ursula, Boris, dazi, Hong Kong e... Com'è stato il mondo nel 2019

Lorenzo Lamperti

Incendi, elezioni, sfide commerciali e geopolitiche, proteste: che cosa è successo nell'anno che volge al termine

E' stato un anno di fiamme, come quelle che hanno avvolto la cattedrale di Notre Dame a Parigi. E' stato un anno di elezioni, come quelle Europee che hanno visto la faticosa resistenza delle forze del cosiddetto establishment di fronte all'avanzata sovranista populista. E' stato un anno di decisioni nette, come quella del Regno Unito che ha dato pieno mandato a Boris Johnson di "get Brexit done". E' stato un anno di uomini forti, come Narendra Modi in India, e di vittorie deboli, come quella di Trudeau in Canada o di Sanchez in Spagna. E' stato un anno di cambiamento e restaurazione, come in Sudamerica dove Evo Morales è dovuto scappare dalla Bolivia e i peronisti sono tornati al potere in Argentina. E' stato un anno di accordi, come quello sulla Via della Seta tra Italia e Cina. E' stato un anno di scontri commerciali e geopolitici, come quello tra Stati Uniti e Pechino. E' stato un anno di proteste, come quelle in Libano, Cile, Ecuador, Colombia, Hong Kong. E' stato un anno di regimi rovesciati, come in Sudan, o di regimi che in qualche modo restano al potere, come in Algeria. E' stato un anno di attentati, come in Nuova Zelanda o Sri Lanka, e di guerre civili o per procura, come in Siria, Yemen e Libia. E' stato un anno di promesse tradite, come quella della Cop 25. Ma è stato anche un anno con qualche (piccolo) segnale di speranza. Un anno di fine decennio, di transizione (ma quale anno d'altronde non è di transizione?) in attesa di un 2020 che potrebbe dare tante risposte. Ecco una piccola mappa per capire in che direzione è andato il mondo nel 2019.

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EUROPA 2019

Il culmine della vita politica del Vecchio Continente nel 2019 sono state senza dubbio le elezioni europee del 26 maggio, nelle quali sostanzialmente chi si trova al governo nei singoli Stati è stato punito a livello nazionale. Nonostante l'avanzata delle forze sovraniste, comunque divise in diversi schieramenti, ha tenuto l'asse tra Ppe e Pse con i liberali guidati da Emmanuel Macron. Ma non è certo stato un processo pacifico quello che ha portato alla composizione della nuova Commissione europea. Il tedesco Manfred Weber, candidato del Ppe, è stato impallinato da Macron, che a sua volta ha dovuto subire la vendetta di Angela Merkel su Sylvie Goulard, esclusa dalla nuova Commissione europea che alla fine è stata affidata a Ursula von der Leyen. La tedesca, e ci risiamo, è entrata in funzione in ritardo a inizio dicembre e ha davanti un mandato tutt'altro che semplice vista la lotta di potere tra i due azionisti di maggioranza, Germania e Francia, che ha coinvolto anche l'allargamento dell'Ue sui Balcani. 

Né Macron né Merkel se la passano bene sul fronte interno. L'inquilino dell'Eliseo è stato prima sotto assedio dei gilet gialli, ora invece è nel mirino delle proteste per la riforma delle pensioni. Senza contare il drammatico incendio di Notre Dame che ha sconvolto la Francia e non solo. Macron ha provato a riparare con un protagonismo sempre più evidente sul fronte internazionale: ha aperto le porte a Vladimir Putin cercando di riavvicinare la Russia all'Europa, si è proposto come intermediario tra Stati Uniti e Iran, ha chiuso grandi affari con la Cina di Xi Jinping prima a Parigi e poi a Shanghai, ha descritto la Nato come in stato di "morte cerebrale". La cancelliera fatica invece a tenere insieme una Grande Coalizione in grande difficoltà per il crollo verticale del Spd e la contemporanea ascesa della destra radicale dell'Afd.

Nel resto d'Europa sono cambiati diversi governi, a partire ovviamente dell'Italia con il governo gialloverde tra M5s e Lega che si è rapidamente trasformato in un governo giallorosso con M5s e Pd ma sempre con alla guida Giuseppe Conte. Dopo la firma del memorandum of understanding sulla Belt and Road Initiative con Pechino di fine marzo, il nuovo esecutivo Conte pare aver assunto un atteggiamento più prudente a livello geopolitico (mentre una volta passata all'opposizione la Lega è sempre più trumpiana e anti cinese), anche per le crescenti pressioni di Washington in merito a dossier sensibili come, per esempio, il 5G

In Danimarca è salito al governo il centrosinistra con una politica comunque piuttosto dura sui migranti. In Grecia è invece tornato il centrodestra di Mitsotakis dopo la sconfitta di Alexis Tsipras. Sempre la Grecia è stata protagonista di un episodio molto positivo, con lo storico accordo con Skopje sul nome della Macedonia del Nord. Il Portogallo ha premiato la gerinconça (accozzaglia) di sinistra, mentre in Spagna Sanchez ha voluto scommettere su seconde elezioni, dopo aver vinto nettamente quelle di aprile, per avere una maggioranza maggiore. Scommessa fallita e nuovi negoziati con Podemos. In Romania è caduto il contestato governo socialdemocratico di Dancila, mentre in Polonia si è confermato con grandi risultati Kaczynski. Le proteste stanno scuotendo la Repubblica Ceca di Babis, mentre Finlandia e (con ogni probabilità) Austria con Sanna Marin e Sebastian Kurz hanno i due leader politici più giovani al mondo.

C'è invece chi sembra aver finalmente preso una decisione sul proprio futuro in relazione all'Unione Europea: il Regno Unito. Alle elezioni dello scorso 12 dicembre il conservatore Boris Johnson ha trionfato sui Labour distrutti da Jeremy Corbyn e ora la Brexit è più vicina, anche se il Regno Unito rischia la disgregazione interna per un possibile nuovo referendum di indipendenza della Scozia e una futuribile riunificazione dell'Irlanda.

Ai confini con l'Europa, Vladimir Putin ha dovuto fare i conti con i primi segnali di malcontento interno, ma allo stesso tempo è riuscito ad affermare il suo ruolo di "kingmaker" del Medio Oriente nella guerra in Siria. E tratta con la Bielorussia di Lukashenko per la formazione di una nuova unità statale che possa lasciarlo al potere anche dopo il 2024. Nel frattempo, ha avviato con l'intercessione di Macron e Merkel, il dialogo con il nuovo leader dell'Ucraina, Vladimir Zelensky.

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AFRICA E MEDIO ORIENTE 2019

Movimento. Se si dovesse scegliere una sola parola per riassumere il 2019 di Africa e Medio Oriente si potrebbe scegliere questa. Le potenze regionali stanno consolidando il proprio ruolo, in primis Turchia ed Egitto, ma allo stesso tempo sono state scosse da proteste interne, in primis l'Iran, e stanno provando a ricalibrare la propria azione geopolitica, come le monarchie del Golfo. L'anno si è aperto con le rivolte in Africa, che avevano fatto parlare di "nuove primavere arabe". In Algeria è stato deposto il vecchio regime di Bouteflika ma alla fine non è cambiato praticamente nulla. Il 12 dicembre si è votato a elezioni che presentavano una rosa di candidati in continuità con il precedente sistema di potere. In Sudan, invece, è caduto Bashir e si è aperta una fase di transizione gestita congiuntamente da civili e militari.

L'instabilità regna sovrana in molti paesi: in Camerun è in atto una sorta di conflitto civile tra maggioranza francofona e minoranza anglofona, in Nigeria la rielezione di Buhari non ha sciolto i nodi interni, mentre il Sahel (in primis Mali, Niger e Burkina Faso), sono teatro dell'azione dei fondamentalisti islamici. Durante il suo recente viaggio in Costa D'Avorio, Macron ha dichiarato chiusa l'esperienza del franco CFA, ma al momento due dei pochi paesi africani che crescono davvero sono Ghana ed Etiopia, tanto che il suo primo ministro Abiy ha vinto il Nobel per la Pace. 

Ramaphosa ha vinto le elezioni in Sudafrica con un risultato comunque al di sotto delle attese dopo anni e anni di scandali e corruzione, che stanno minando il progetto di rilancio di uno dei paesi più industrializzati del continente. Continente in cui la presenza di Cina e Russia è sempre più diffusa a tutte le latitudini, in particolare quella di Pechino, che ha favorito il processo che porterà all'African Continental Free Trade Area, la più grande area di libero scambio al mondo.

Risalendo la costa orientale dell'Africa, l'Egitto di Al Sisi svolge un ruolo di stabilità che fa comodo alle monarche del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, soprattutto mentre infiamma lo scontro sulla Libia. Ormai la partita sembra sfuggita di mano da Italia ed Europa, con la Russia che sostiene più o meno direttamente il generale Haftar (l'uomo forte della Cirenaica) e la Turchia che è pronta ad aiutare anche militarmente il governo di Tripoli di Serraj. 

Lo stesso schema già utilizzato in Siria, dove Washington e Mosca hanno dato il via libera all'azione di Ankara volta a impedire la costruzione di uno stato indipendente curdo. Washington è stata poi ricompensata con l'individuazione e l'uccisione di Al Baghdadi, il califfo dell'Isis. Ma lo Stato Islamico, secondo recenti report, appare tutt'altro che sconfitto e potrebbe anzi rilanciare la sua azione e presenza grazie alla crisi e all'instabilità che stanno sconvolgendo l'Iraq.

Situazione instabile anche in Libano, dove le proteste hanno portato alle dimissioni del primo ministro Hariri e alla nomina di Diab, che pare sia sostenuto dalle milizie sciite filo iraniane di Hezbollah. Anche l'Iran ha avuto il suo da fare sul fronte interno, con proteste di massa soffocate nel sangue. La tensione sul Golfo, con la crisi delle petroliere, ha fatto temere di essere sul punto di una nuova guerra regionale. Rischio al momento scongiurato anche perché entrambi gli attori, Washington e Teheran, sembrano non voler andare oltre le minacce incrociate funzionali (anche) al consenso interno. 

Il classico rivale regionale dell'Iran, l'Arabia Saudita, continua sulla strada delle riforme nell'ambito dell'ambizioso Vision 2030 del principe Bin Salman e assolve se stesso sull'omicidio Khashoggi, mentre Aramco si quota in Borsa con valori record. Ma tra Riyad e Abu Dhabi ci sarebbero alcune differenze di vedute, in particolare su come porre fine alla guerra in Yemen. E intanto si stanno riannodando i fili della diplomazia, anche se non alla luce del sole, con Israele, dove due elezioni non sono bastate per formare il nuovo governo e si aspetta sempre il famoso "piano Medio Oriente" della Casa Bianca.

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AMERICHE 2019

Anno a dir poco intenso anche gli Stati Uniti di Donald Trump. Sul fronte interno si è aperta la lunga marcia di avvicinamento che porterà alle elezioni Usa 2020 del prossimo 3 novembre. Le primarie Dem stanno per entrare nel vivo. Tra i nomi più in vista, oltre a quelli di Joe Biden e Bernie Sanders, c'è quello di Elizabeth Warren. Mentre Michael Bloomberg, entrato in corsa all'ultimo, sembra avere poche chance. Proprio Biden è al centro del caso (la famosa telefonata con Zelensky) che ha portato all'avvio della procedura di impeachment per Trump. Ma in realtà, dopo che il Senato bloccherà tutto, il presidente potrebbe risultare avvantaggiato. 

Sul fronte esterno, il susseguirsi di negoziati, minacce, tentati accordi e dietrofront improvvisi, è stato l'incessante leit motiv. I tre incontri con Kim Jong-un, tra cui quello storico nella zona demilitarizzata al confine tra le due Coree, non hanno portato a nessun risultato concreto. Così come non si è arrivati, per fortuna, a nessuna conseguenza irreparabile nell'escalation sul nucleare con l'Iran. Ma a dominare davvero l'attenzione geopolitica di Washington è sempre la Cina. La guerra commerciale, che vive anch'essa di accordi parziali, tregue e nuovi dazi, si è tramutata in qualcosa di più vasto: una guerra tecnologica che vede al centro il 5G e il colosso cinese Huawei, con la figlia del suo patron al momento ai domiciliari in Canada. Ma non solo. La sfida è talmente vasta, dall'Asia all'America Latina, dall'Europa alla Groenlandia, che c'è chi parla di seconda guerra fredda. Il tutto mentre la Nato, che ha "celebrato" i suoi 70 anni, sembra divisa e dilaniata al suo interno, tanto che il vertice di Londra si è chiuso senza conferenza stampa finale.

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I rapporti con il vicino Canada non sono dei migliori, anche dopo che Trudeau, appena rieletto ma con un calo di consenso e di speranze, si è fatto riprendere in un video al vertice della Nato di Londra mentre scherzava su Trump. E proprio il caso di Huawei sta mettendo il Canada in una difficile situazione diplomatica tra i due giganti.

L'America Latina, nel frattempo, è tornata a tremare. La situazione è elettrica praticamente ovunque. Partendo dal Venezuela, dove l'autoproclamato presidente Guaidò (sostenuto dagli Usa e non solo); non è riuscito a scalfire davvero il governo chavista di Maduro. Il principale alleato di Caracas, Evo Morales, è invece stato costretto a cercare riparo in Argentina dopo che un golpe lo ha messo fuori gioco con la scusa di presunti brogli elettorali. Proprio in Argentina sono tornati i peronisti, con il ticket Fernandez - Kirchner, che promette di cambiare la politica economica del paese. In Brasile, Lula è uscito dal carcere e si propone di sfidare Bolsonaro, messo a dura prova dagli incendi in Amazzonia. Il Perù è rimasto senza governo dopo le dimissioni di Vizcarra, Ecuador e Colombia sono state sconvolte dalle proteste. Mentre l'Uruguay ha cambiato governo, passando a destra.

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ASIA E PACIFICO 2019

L'Asia è forse il continente dove non solo le cose stanno cambiando, ma potrebbero originare i nuovi equilibri geopolitici mondiali. In primis per il ruolo della Cina. Il mastodontico progetto Belt and Road ha raggiunto paesi a tutte le latitudini, dai Caraibi all'Oceania fino all'Europa, con l'adesione dell'Italia (primo paese del G7 a farlo) che ha avuto un importante aspetto simbolico per Pechino. Le celebrazioni dei 70 anni dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, il 1° ottobre, hanno mostrato che la Cina è sempre più forte anche a livello militare, non solo commerciale. I rapporti con l'Africa si sono fatti ancora più profondi, così come quelli con la Russia, pur senza sfociare in una vera e propria alleanza strategica. Aumenta la penetrazione in Asia centrale, si moltiplicano i progetti nel Sud Est dopo la rinegoziazione di quelli precedenti, per esempio con Thailandia e Malaysia.

Ma i problemi ci sono anche per Pechino: l'economia non cresce più ai livelli precedenti e le proteste di Hong Kong stanno mettendo a dura prova la tenuta dell'ex colonia britannica (fondamentale hub finanziario per la Cina), tanto che Xi sta provando ad aumentare il ruolo di Macao, Shenzhen e Shanghai. Gli Usa hanno alzato la tensione diplomatica anche sullo Xinjiang, sul quale si è verificato un caso di leak che a Pechino a non è piaciuto per niente. E all'orizzonte ci sono le elezioni di Taiwan: i filo indipendentisti del DPP, che continuano a ricevere armi da Washington, sembrano in grande vantaggio sul Kuomintang, soprattutto dopo la crisi di Hong Kong.

Ma intanto, complici anche le tensioni diplomatiche tra Giappone e Corea del Sud e la contemporanea latitanza di Washington (che anzi fa arrabbiare Seul chiedendo molti più soldi per le spese di difesa), stanno aumentando il ruolo diplomatico della Cina nel Far East. Tanto che il primo summit bilaterale tra Moon Jae-in (che ad aprile è atteso da elezioni) e Abe Shinzo si è tenuto a Chengdu per l'intercessione di Xi, non di Trump. Mentre nel corso del 2020 si attende una grande visita dello stesso Xi a Tokyo. Rendendo chiaro ancora una volta che il ruolo di Pechino per mantenere la stabilità regionale, in primis sulla Corea del Nord, è fondamentale.

A proposito di Estremo Oriente, Papa Francesco è stato in Thailandia e Giappone e pare proprio intenzionato a visitare la Cina, forse già nel 2020. Una visita che sarebbe storica, dopo l'accordo sulla nomina dei vescovi del 2018, e che potrebbe portare all'apertura di relazioni ufficiali tra Vaticano e Pechino. Anche se, nel frattempo pare che in Cina i testi sacri vadano adattati al pensiero socialista con caratteristiche cinesi. Taipei osserva con grande preoccupazione.

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Poco più a Occidente, l'India sta vivendo un momento a dir poco complicato. Lo scorso aprile Narendra Modi ha vinto le elezioni, dopo aver utilizzato la crisi del Kashmir col Pakistan in campagna elettorale. La svolta ultranazionalista è proseguita nei mesi successivi, tra declassamento dell'autonomia del Janmu e Kashmir alla legge di cittadinanza che esclude i profughi musulmani. Tanto che sono esplose le proteste in molte città, con già diversi morti tra i manifestanti.

La Thailandia, dopo le elezioni di marzo, è sempre più controllata dai militari, mentre il premio Nobel per la Pace ed ex eroina di mezzo mondo, Aung San Suu Kyi, si è ritrovata alla sbarra all'Aja per difendere i militari di Myanmar dall'accusa di genocidio della minoranza musulmana Rohingya. Widodo si è conquistato un secondo mandato vincendo le elezioni in Indonesia, e nei programmi intende essere più inclusivo, chiamando il suo rivale alle urne a far parte del suo esecutivo. 

Il Mar Cinese Meridionale è un'area sempre più tesa, con le rivendicazioni di Cina, Filippine e Vietnam che sono sempre più in conflitto tra loro. Mentre Duterte, che prosegue la sua guerra alla droga, sembra essere in procinto di riallinearsi a Pechino, il Vietnam pare intenzionato a far valere fino in fondo le proprie ragioni. Gli attentati hanno scosso Nuova Zelanda e Sri Lanka, anche se i due paesi hanno risposto in maniera molto diversa: includendo nel primo caso, escludendo nel secondo.

Scendendo verso l'Oceania, la Cina ha segnato un alto punto a favore instaurando le relazioni diplomatiche ufficiale con le Isole Salomone, che in precedenza riconoscevano Taiwan. Uno smacco anche per l'Australia, che ha intanto riconfermato i conservatori di Scott Morrison, sostenitore di una politica di contenimento dell'influenza cinese nell'area.

Menzione positiva per l'Uzbekistan, che con Mirziyoyev ha dato il via a una importante serie di aperture e riforme, tanto da meritare il riconoscimento dell'Economist come "nazione che è più migliorata" durante il 2019. Menzione negativa per la Cop 25, la conferenza sul clima che si sarebbe dovuta tenere a Santiago del Cile e che poi è stata invece spostata a Madrid per le proteste che hanno coinvolto la capitale sudamericana: qui le promesse, ancora una volta, sono rimaste solo dei buoni propositi. E allora, se è stato davvero un anno di transizione, bisognerebbe capire di transizione verso dove. Magari verso lo spazio, sempre più vicino dopo che gli Stati Uniti hanno ufficialmente creato la loro Space Force.