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L'informazione malata, oltre il caso Mino Raiola
Il caso Mino Raiola genera riflessioni sul concetto di fake news nel mondo dell’informazione. Ci sono esempi virtuosi, come i podcast: questione solo di format?
Caso Mino Raiola, un'analisi a freddo sul mondo dell'informazione malata
“Mino Raiola è morto”. Lo scoop falso diffuso il 28 aprile, rivelatosi poi purtroppo realtà nei giorni avvenire, è stato l’ennesimo campanello d’allarme per l’informazione in senso lato. Che le fake news siano oramai connaturate al vocabolario comune, presenti anche su testate autorevoli, è una non-notizia. Il vero scoop oramai è diventato l’atteggiamento, quasi rassegnato, dell’audience rispetto alle notizie, spesso sensazionalistiche, che vengono diffuse primariamente online, web o social si tratti. Le radici e le cause di questo inghippo quasi quotidiano, per utilizzare un eufemismo, sono molteplici ma una controtendenza nel mondo dell’informazione è doverosa, soprattutto per il valore sociale di cui è investito (o perlomeno dovrebbe essere).
Non è giusto, o meglio non lo è più, riferirsi al giornalismo in quanto tale perché, bello o brutto che sia, la trasformazione digitale ha modificato il significato originario della professione: parlare di informazione è più appropriato proprio perché i canali di atterraggio dei contenuti di cui ci nutriamo non hanno più dei limiti circoscritti. Oggi, infatti, la tanto vituperata suddivisione tra media “caldi” e media “freddi” di McLuhan non è solo superata è stata ribaltata. Sono cambiati i parametri, le remunerazioni e le modalità di raccoglimento delle stesse, i lettori che non osservano più ma guardano distrattamente, la società stessa.
Il santo e benefico pluralismo dell’informazione è sempre più inquinato dalla voracità della rete e dell’audience che, quasi per paradosso, crede più a chi “arriva prima” di chi “arriva con qualcosa” perché l’abitudine e il diktat è stato questo. Sono stati abituati così e, si sa, la routine è la miglior difesa di qualunque individuo. La credenza secondo cui “sono informato perché conosco prima di altri” sta all’audience come “prima diffondo, più sono autorevole” sta ai mezzi di informazione, quasi per contrappasso. Questo vortice, complice l’evoluzione digitale senza freni, ha surclassato il comparto tradizionale dell’informazione: tutti credono di essere agenzie di stampa con inviati sul posto. Il problema, come fa comodo a molti, non sta solo nel giornalismo partecipativo ma risiede nelle modalità, scusate la bieca espressione, “di fare informazione”.
La verifica delle fonti era, resta e sarà uno dei capisaldi dell’informazione anche se, comprensibilmente, la struttura atta a questi scopi non è più adeguata come un tempo. Lo scoop falso del famoso procuratore Mino Raiola è emblematico di questa tendenza dove nessuno ha più il suo “posto” e l’autorevolezza della notizia si fonda sulla percentuale di volte in cui un medium ha diffuso qualcosa che non è stato disatteso. Appena è stata lanciata la notizia nel giro di pochi minuti qualunque agenzia, testata, sito di informazione l’ha ripresa creando un tunnel dove non si parlava d’altro. La smentita è poi arrivata dalla fonte primaria: niente di più semplice che la famiglia. Errare humanum est, e questo vale da secoli.
L’inversione di rotta e il vero “scoop” però oggi sono l’attesa che non deve, fisiologicamente, essere intesa come il quotidiano in edicola il giorno successivo ma qualche minuto in più. Si pensa di non avere più nemmeno quello ma se si sceglie di “fare informazione” (scusate di nuovo) bisognerebbe pensare alle ripercussioni e agli indirizzi che certe affermazioni possono procurare; magari pensando alle tendenze di successo più in voga, anche tra i giovanissimi, come i podcast: chiarezza, approfondimento e verifica lì funzionano, questione solo di format?