Culture
Nel Grand Budapest Hotel Wes Anderson riscopre il piacere del racconto






di Lorenzo Lamperti
@LorenzoLamperti
Wes Anderson, il grande narratore. Chi l'avrebbe detto che un giorno il regista di Rushmore e I Tenenbaum, fino all'ultimo Moonrise Kingdom, si sarebbe reinventato in un romanziere d'appendice? Probabilmente in pochi ma tant'è: il texano più newyorkese d'America ha (ri)scoperto il piacere del racconto puro in Grand Budapest Hotel, la sua ultima fatica già Gran Premio della Giuria allo scorso festival di Cannes e in uscita nelle sale italiane.
IL FILM DALLE CHIAVI INCROCIATE - Il film di Anderson è un gioco di scatole, più prussiane che cinesi, dove alla base c'è un tratto comune: il Racconto. Tom Wilkinson è un anziano scrittore dei giorni nostri che racconta il suo incontro con Zero Moustafa, concierge del Grand Budapest Hotel, avvenuto nel 1985. Jude Law è il Tom Wilkinson giovane che incontra F. Murray Abraham che gli racconta le vicende, ambientate negli anni Trenta, che lo hanno portato a possedere un albergo dal fastoso passato e dal presenta senza futuro. Tre piani diversi, dunque, che tutti insieme compongono il grande romanzo del film. Il vero protagonista del racconto è comunque Gustave H., interpretato da un magistrale Ralph Fiennes, il concierge degli anni d'oro del Grand Budapest. Gustave riceve in eredità da una delle sue tante attempate clienti/amanti un quadro dal valore inestimabile. I figli della donna però lo accusano dell'omicidio della madre e lo braccano per ucciderlo anche dopo la rocambolesca evasione dal carcere nel quale Gustave si ritrova rinchiuso. Zero è il suo garzoncello, tuttofare che assiste Gustave anche nei compiti più pericolosi e moralmente discutibili. Ma quello che conta è solo la salvezza del buon nome e del prestigio del Grand Budapest. A intervenire in aiuto di Gustave in difficoltà allora c'è anche la società delle chiavi incrociate, strampalata congrega di concierge degli hotel più prestigiosi di mezzo mondo capitanata da Bill Murray. Intendiamoci, non è che Anderson perda la sua cifra stilistica. L'attenzione visiva, la costruzione delle inquadrature, il ritorno di tematiche come il rapporto tra allievo e maestro, sono ben presenti. Però, a differenza del solito, Anderson costruisce una narrazione compatta e molto godibile. Grand Budapest Hotel non è più solo un grande esercizio di stile autoreferenziale, ma un film d'avventura aperto agli intrecci del caso.
TRA ROMANTICISMO E DECADENZA - Anderson gioca molto sulla differenza tra il Grand Budapest degli anni Trenta e quello del 1985, quando lo Zero ormai anziano racconta le gesta sue e di Gustave a Jude Law. Piene di luci, colori pacchiani e soprattutto persone le immagini degli anni Trenta, oscure e vuote quelle del 1985. Non ci sono più le vistose acconciature e abbigliamenti delle anziane dame spesso circuite da Gustave, né i clienti facoltosi e tirati a lucido. Restano pochi solitari clienti in immense hall e sale da pranzo testimoni di un lucente passato e simboli di un presente decadente. L'hotel è l'ennesima zona franca del cinema di Anderson, il luogo nel quale nascondersi, rifugiarsi da un mondo sempre incomprensibile e spesso crudele. L'edonismo idealista di Gustave lascia spazio poi al romanticismo e alla nostalgia di Zero, incapace di separarsi da un gioiello divenuto ormai rudere. La piccola stanzetta senza finestre che abitava da garzoncello resta il suo regno anche da proprietario. Il Grand Budapest è il suo rifugio segreto dal tempo che passa e il teatro del suo esilio dal mondo esterno. Il Grand Budapest è la sua prigione sempre meno dorata dove continua a vivere e ricordare un passato che forse non è mai esistito.